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I Profani, mezzo secolo in musica

I Profani, mezzo secolo in musica

18 Giugno 2017, 11:26

Andrea Del Bue

Mezzo secolo di musica ininterrotta: I Profani, band parmigiana nata sui banchi di scuola negli anni Sessanta, ha compiuto mezzo secolo. Potremmo chiamarli i Rolling Stones di Parma, quanto meno per la longevità. Era il 1966 quando Maurizio Dodi e Gian Fabrizio Pioli, studenti all’Itis, fondarono il gruppo, insieme a Giorgio Ugolotti, Maurizio Bevilacqua e al compianto Antonello Gabelli. Oggi, oltre cinquant’anni dopo, continuano a suonare live a festival, sagre e feste, con una formazione rinnovata: i fondatori Dodi, alla batteria, e Pioli, al basso, oggi sono insieme a Stefano Nidi, tastierista proveniente da una famiglia di musicisti, la voce rock di Thomas Tagliavini e il chitarrista, orecchio assoluto, Luciano Calafiore. Sono sempre loro, «I Profani». Siamo negli anni Sessanta, quelli del boom economico, degli elettrodomestici, dei primi televisori, delle ferie. E delle rock band, Beatles e Rolling Stones su tutti, pantaloni a zampa, camicie colorate, stivali col tacco. Gli anni in cui si «aveva meno ma si stava meglio - dice Dodi -. I giovani avevano fiducia nel futuro, c’era entusiasmo e spensieratezza; erano gli anni in cui si stava davvero, senza social, ma con tanta musica». Soldi pochi, passione tanta: «Si faceva tutto in casa - raccontano -; nessuno di noi poteva permettersi dischi, spartiti e lezioni di musica: per questo eravamo autodidatti». Anche i vestiti erano improvvisati: «Ricordo che volevo la giacca come quella di uno dei Pooh - ricorda Pioli -: l’avevo fatta con la fodera di un materasso». Per memorizzare le canzoni che arrivavano da Inghilterra e Stati Uniti c’era il jukebox; mancavano però le monete per farlo girare: «Si andava al bar e si aspettava che qualcuno mettesse il gettone per far partire una canzone - raccontano -; a quel punto si cercava di memorizzare il più possibile per poi andare in sala prove e trasmettere tutto agli altri». Sala prove, parola grossa: «Casolari di campagna abbandonati, umidi e freddi. Non c’erano altre possibilità: gli strumenti erano quelli che erano, comprati a rate». Non che oggi sia cambiato molto: «Proviamo in taverna e suoniamo alle feste qui vicino: ora come allora». Le prime trasferte sembravano un trasloco: «Avevamo comprato un pulmino firmando delle cambiali: caricavamo tutto sul tetto. C’erano degli amplificatori dieci volte più grandi di quelli attuali, ma molto meno potenti». Il punto di riferimento era Athos Davoli, re degli amplificatori: erano suoi quelli che permisero ai Beatles di suonare, il 24 giugno del ‘65, al velodromo Vigorelli di Milano nella prima data del loro unico tour italiano. E per le band locali il gigante Davoli aveva sempre un occhio di riguardo. «C’erano pochi soldi, ma più solidarietà» è il commento dei Profani oggi. E più possibilità: «Se piacevi ai giovani, avevi l’opportunità di aprire e chiudere i concerti dei big di allora», assicurano. E la lista è lunga: Dik Dik, Camaleonti, New Trolls, Pooh, Mino Reitano, il parmigiano Rinaldo Ebasta, Nicola di Bari, Massimo Ranieri, Rocky Roberts e Dori Ghezzi». È legato proprio alla moglie di Fabrizio De André uno dei tantissimi aneddoti di questi cinquant’anni di carriera: «Alla fine degli anni Sessanta, sui colli di Salso, aveva cantato col nostro microfono che si era impregnato del suo profumo inebriante: alla fine del concerto abbiamo fatto a gara tra di noi per tenerlo». L’età è quella che basta una sera perché il cuore batta forte. Nell’assolo di Nidi c’è tutto: «Avevamo 16 anni, eravamo su un palco a 20 centimetri da terra: ci sembrava di volare e pensavamo di essere i Beatles». La città e la provincia erano piene di locali dove suonare: tra i tanti, Giardino d’inverno e King a Parma, Sala Capitol a Vicofertile, Capinera a Sorbolo, Jumbo di Sanguinaro, Rgb di San Secondo. Il mercoledì e il sabato mattina, piazza Garibaldi si popolava di giovani band, ma non per suonare: «C’erano gli impresari, con i quali si concordavano le serate - ricorda Dodi -: io facevo fogone per andare a strappare l’ingaggio del fine settimana». Fino al ‘73, tutti i weekend e ogni festa comandata significavano concerto. Anche due al giorno. Le canzoni italiane più famose e tante hit straniere: «L’inglese lasciava un po’ a desiderare, ma al tempo non lo conosceva nessuno: una strofa giusta, una po’ di fantasia, inventando il testo. Non se ne accorgeva nessuno». Fino a quando, una sera d’agosto, a Borgotaro, «abbiamo suonato ad una festa piena di strajè di Londra, tornati per le ferie. Loro l’inglese lo sapevano e si erano accorti che inventavamo le parole». Come dire, «Asganauei». Dopo quell’episodio, massima attenzione a lingua e pronuncia. Negli anni Settanta arriva la disco music «e gruppi come il nostro non erano più ricercati. Però non abbiamo mai smesso: almeno una volta a settimana ci siamo trovati per suonare insieme, nonostante le famiglie e il lavoro, e uscivamo per qualche serata, soprattutto di beneficenza». Poi, nel giugno del 1993, Marco Stocchi si inventa il «Dancing Revival ‘60», con una ventina dei gruppi parmigiani che firmarono il successo di quegli anni d’oro per le band. «Lì si è riaccesa la scintilla e abbiamo iniziato di nuovo a fare live con continuità: anche oggi facciamo una trentina di concerti all’anno». E per I Profani, nella storia dei quali si sono succeduti anche Giancarlo Bonazzi, Gino Campanini, Valeriano Gaibazzi e Andrea Repetati, si profila una vita ancora lunga: «La musica fa rimanere giovani e la passione non passa mai - dicono i componenti storici della band -. A stare insieme si ritrova la spensieratezza di allora, tra un bicchiere di vino, una fetta di salame e una cantata».

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