Luca Pelagatti
Nelle ultime immagini del suo profilo Facebook sorride. Ma non solo: fa anche il segno della vittoria con le dita, bacia una ragazza, si atteggia a duro con i rayban a goccia, gigioneggia anche con le dita come fossero una pistola. Ed è strano perché lui non è uno che spara. No, Mohamed Jella è uno che ammazza a botte, che si sfoga a calci e pugni, non un killer freddo con il revolver. E meglio se le vittime sono donne. Che così non si possono difendere.
Ora che, finalmente, il tunisino si trova rinchiuso in una cella della capitale del suo paese le immagini di quel ghigno messo in rete smettono di essere quello che sono state per tutti questi mesi: l'ultimo feroce sberleffo di un uomo violento e crudele. Uno che ha ammazzato una donna debole come Alessia Della Pia e che poi ha pensato solo a fuggire. Come peraltro aveva già fatto molte volte. Troppe.
Dietro di lui, per tutti i giorni passati da quel 6 dicembre 2015, si sono accumulate ipotesi e supposizioni, ricostruzioni e indagini silenziose. Ma alcune cose erano certe: la prima è che Jella era riuscito a scappare nelle concitate ore dopo il delitto rifugiandosi appunto in Tunisia dove si era ricreato una nuova vita. Un'apparenza di dolce vita, siglata con lo pseudonimo di Bimbo, di cui vantarsi anche su Facebook. La seconda che della morte della 39enne massacrata nell'appartamento di via Dei Bersaglieri, nel palazzone del Cinghio Sud, quasi certamente è responsabile proprio il tunisino. E la terza, amara, è che quell'uomo non avrebbe dovuto neppure essere da queste parti. Lo dimostra la sua storia ed è una storia fatta di crimini e botte. Lo ripetiamo: quasi sempre riservate a chi non avrebbe potuto reagire.
Jella, nel periodo del delitto di Alessia, era appena uscito di prigione dopo essere stato condannato a tre anni per aver rapinato una ragazza in bici in piazza della Pace: due schiaffi per tramortirla e le mani infilate in tasca per rubarle soldi e il cellulare. Poi una fuga poco convinta. Come se il trentenne fosse convinto che a lui nulla sarebbe potuto accadere.
Ma la vittima, per quanto spaventata e sconvolta, aveva saputo descrivere bene i propri aggressori. Tra cui, appunto, c'era Jella che era così finito dietro le sbarre. Parma, Reggio, Piacenza: tante le carceri dove era stato sballottato dopo l'ennesima scazzottata con gli altri reclusi. Perché neppure dietro le sbarre sembrava essersi placato. Poi, a settembre del 2015, la scarcerazione. Ma non certo l'addio alla violenza. Pochi giorni dopo, il 2 dicembre, ancora un fermo: agli agenti che lo perquisivano aveva destinato una raffica di minacce, aveva anche osato alludere ad una vendetta dell'Isis. E tra un tentativo di aggredire e l'altro aveva anche citato invano Allah. «Ma figuriamoci, quello non è certo un terrorista. E' solo uno spacciatore, un balordo comune», avevano spiegato gli investigatori.
Già, ma anche un uomo che l'Italia aveva espulso. Almeno in teoria. Perché su di lui pendeva da tempo un'ordinanza che lo avrebbe dovuto rimandare da dove era venuto. Quel documento è sempre stato però solo carta straccia.
Quel due dicembre il tunisino infatti aveva rimediato denunce per spaccio, oltraggio e ricettazione. E aveva ricevuto l'invito (si, l'invito) a presentarsi il giorno dopo all'Ufficio immigrazione della questura, così come prevede la legge, per attivare il procedimento di espulsione. Non sarebbe stata la prima volta. Già in passato per lui erano partite le procedure che passano per il riconoscimento da parte dell'Ambasciata tunisina di quello che era a tutti gli effetti una persona senza documenti. E chi non ha identità certa e una nazionalità sicura certamente non può essere spedito via. Ma dall'ambasciata non era arrivata nessuna risposta e un posto per lui nei centri di identificazione dell'epoca - i Cie di Roma, Bari, Trapani, Caltanissetta e Torino - non si era trovato. Così gli era stato intimato di lasciare l'Italia entro sette giorni. Un documento consegnato al diretto interessato. Che, ovviamente, l'aveva buttato nel primo cestino rimanendo a Parma, continuando a frequentare la casa di Alessia Della Pia, vivendo la sua vita di spaccone con i soldi e la droga in tasca. Fino a quando, per un litigio o chissà perché, ha finito per massacrare la povera Alessia lasciata come una bambola rotta nell'androne. Il referto dell'epoca è da brividi, un elenco di lividi e traumi in tutto il corpo. Poi mentre il personale del 118 cercava di regalarle una speranza di vita Jella aveva infilato la porta. Ed era svanito. Nessuno sa che percorso abbia seguito per espatriare, se abbia potuto contare su un aiuto in qualche grande città, nel mondo d'ombra degli spacciatori. Poco tempo dopo però è ricomparso nel suo paese. E nelle foto sorrideva. Alessia ormai era morta, certo. Ma quel ghigno, ogni giorno sembrava ammazzarla un po' di più.
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