Corrono i suoi occhi, prima del suo cuore. Cuore da atleta, ritmo e ricordi che vanno dal Gambia e arrivano fino a qui, in un’estate che affonda in quello sguardo il senso di ciò che è necessario. Basta correre, tornare a fare quegli 800 metri in un minuto e 48 secondi e respirare un ossigeno di pace che sembra così lontano nel sangue di Lamin Keita, 24 anni per ora non uguali a quelli di tanti. Quell’1’48’’24 negli 800 metri entrò la prima volta nel campo scuola del Lauro Grossi nei primi di novembre. Chi c’era parla di questo ragazzo che arrivava dal Gambia - una piccola lama di terra conficcata da ovest ad est in una metà del Senegal, che negli anni sessanta ottenne l’indipendenza dell’impero britannico – che in inglese provava a spiegare che lui nel suo paese correva, era in quello che in Italia viene chiamato «Gruppo sportivo militare». Era un campione in Africa Quando lo incontriamo è la prima cosa che ci racconta, di come «quando vivevo in Gambia, ed ero in un corpo di polizia correvo, era quello il mio lavoro. Sono riuscito a fare gli 800 metri in 1’48’’24, si parlava della possibilità di andare alle Olimpiadi, era il 2015: potevo andare a Rio, rappresentare il mio Paese. Il 2015 però è l’anno in cui sono scappato dalla mia terra, prima andando in Mali, passando per la Nigeria fino ad arrivare in Libia. Il clima politico stava cambiando, si sentiva nell’aria che sarebbe scoppiata una guerra civile, e io essendo comunque un militare sarei stato chiamato ad indossare la mia uniforme e rischiare la vita». La violenza Da quando l’allora dittatore Yahya Jammeh decise di fare uscire dal Commonwealth nel 2013 il Gambia, e dichiarando poi che l’inglese non sarebbe più stata la lingua di Stato «sapevamo tutti che stava cambiando qualcosa di importante nella nazione. Stiamo parlando di un regime dittatoriale che durava da 22 anni». Da lì a breve l’annuncio nel 2015 appunto che il Gambia sarebbe diventata una repubblica islamica, con tutte le conseguenze che sappiamo. «Non fu facile per me – racconta con gli occhi verso la pista rossa dove ha appena finito di allenarsi – perché ero orfano di padre, lo persi che avevo 9 anni, e lasciare mia madre lì da sola per me è stata dura, ma non avevo scelta. Sono scappato, in tanti lo hanno fatto, la guerra civile era vicina. Sono rimasto in Libia un anno, sono stato fortunato, ho incontrato un medico del Ciad che mi ha accolto nella sua casa, ma anche lì il clima non era diverso dal Gambia. Mi ha ospitato a casa, ma mi diceva di non uscire se non per cose necessarie, perché fuori non sarei stato al sicuro». L’orrore e la fuga in barcone Alza gli occhi. È come se fosse tornato indietro nel tempo. Lo dice con forza e paura che «io ho visto gente morire davanti ai miei occhi. Non mi scorderò mai quell’orrore, per questo assieme a questo medico ho scelto di imbarcarmi, per arrivare in Italia. Mi ha pagato lui il viaggio, mi ha salvato. Sono arrivato a Reggio Calabria il 22 ottobre 2016, da lì mi hanno trasferito in un centro di accoglienza a Bologna, e adesso Parma, città in cui spero di restare per tanto tempo. Aspetto lo stato di rifugiato politico». Con il Cus Parma «Ora mi sento felice – spiega – perché posso correre. Trovare il Cus Parma per me è stata una fortuna immensa. È stato un caso. Parlando con delle persone che mi stanno aiutando ho spiegato quello che facevo in Gambia, che correvo. Da qui l’incontro al campo scuola, correre il primo 400 dopo più di un anno, è stata una grande emozione, anche se non ero allenato, e penso che Stefano Bisbano che oggi è il mio allenatore se ne sia accorto. Ma ha visto qualcosa in me. Sono stato accolto da tutti, dai miei compagni di squadra, dai genitori, da tutto il Cus. Voglio tornare a correre forte, quest’anno con la maglia rossonera sono già tornato a fare 1’49’, arrivando secondo in un meeting importante a livello nazionale, ma voglio fare di più. Voglio allenarmi, e poi ovviamente voglio essere utile, sentirmi utile. Trovare un lavoro, correre, costruirmi di nuovo una vita. Lo devo anche a mia madre che è in Gambia e che non so se e quando rivedrò». Il suo futuro Riprendersi la vita, quella che aveva. Abbandonata a migliaia di chilometri a sud dei suoi occhi, dove ora è caos. Le elezioni di quest’anno hanno fatto crollare il regime di Yahja Jammeh. Il dittatore ha opposto resistenza, e solo l’intervento armato dei paesi della comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale ha permesso l’insediamento di Adama Barrow. Jammeh ora è in esilio. Keita sta uscendo dal cancello della pista di atletica. Ci tornerà di certo anche domani. Ha gli occhi che corrono ancora, perché nonostante tutto «non voglio semplicemente tornare quello che ero, voglio essere molto di più. Voglio correre gli 800 metri in 1’47’’». Prende il cronometro, e fa vedere a tutti quel tempo. Perché riprendersi la vita che si aveva a volte non basta. È giusto volere di più.