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Le magiche recensioni di Attilio Bertolucci

Le magiche recensioni di Attilio Bertolucci

04 Febbraio 2017, 10:53

Margherita Portelli

È una prosa quotidiana, quella che Attilio Bertolucci riserva alla «Gazzetta di Parma» dal dopoguerra ai primi anni Cinquanta. È una penna fluente accesa dal buio in sala e il poeta di Casarola la «sfodera» con sommessa eleganza, un giorno dopo l’altro, su quel paio di colonne siglate «a.b.» che diventa garanzia per i tanti cinefili parmigiani e per chiunque intenda lasciarsi alle spalle gli anni bui della guerra, con qualche ora di serenità.

Bertolucci va al cinema praticamente tutti i giorni, appassionato autentico, al punto da stendere anche due o tre recensioni al dì. Con rigore restituisce nella sua scrittura le suggestioni di capolavori indimenticabili: autentiche «chicche» per chi ama il cinema, le sue critiche, vere lezioni per chi vorrebbe fare della parola un mestiere.

Non è mai eccessivo, Bertolucci. Anche quando l’entusiasmo traspare incontenibile, il critico riesce a restituire un’analisi puntuale, dettagliata; cesella le parole con innato talento, scova l’anima dell’opera e la restituisce in poche righe, senza nemmeno pensarci troppo, ma affidandosi all’istinto. Lo racconta il figlio Bernardo, spesso vicino di poltrona del padre in sala già in tenerissima età: Attilio, una volta tornato dal centro città nella casa di campagna, a Baccanelli, si piazza ritto davanti al telefono a muro, afferra la cornetta, compone il numero e detta agli stenografi della «Gazzetta» i suoi pezzi: una parola in fila all’altra, senza esitazioni o ripensamenti, senza grandi correzioni quando dall’altro capo del filo la recensione risuona dalla voce dell’interlocutore. È attitudine senz’altro, ma nutrita di una buona dose di cultura, accumulata sin dai tempi della scuola.

Lo racconterà lo stesso poeta, ad anni di distanza, in un articolo pubblicato su «La Repubblica» nel ‘76. «Ho scoperto il cinema, raccogliendo segni inviati per vie misteriose a me e a Pietrino Bianchi, fra il ‘25 e il ‘28. Facevamo il ginnasio superiore o la prima liceale, pessimamente, ma vedevamo in prima visione “La febbre dell’oro”, “Varietè”, “La passione di Giovanna d’arco”, “Sinfonia Nuziale”; e persino, scoprendolo con grande sagacia, “A girl in every port” di Hawks». La scoperta del cinema è per lui un’epifania da cui non smetterà di farsi incantare, oltre che una chiave attraverso la quale aprirsi un varco nell’interpretazione del presente. Ancora studente non va a vedere i film italiani «per antifascismo viscerale, uterino» gli dicono gli amici, ma a pochi anni di distanza, scrivendo di «Roma città aperta», mirabilmente constata: «Il cinema, arte schietta e diretta, può contare più di tanti articoli e discorsi nell’educazione degli italiani». E il cinema americano, passione giovanile mai invecchiata, lo lascia a bocca aperta di fronte a capolavori come «Scarface», di Hawks. «Oggi Scarface (…) resiste appunto perché non predicatorio, né propagandistico, ma puramente e semplicemente vero – scrive -. Non d’una verità meschina e bonaria, ma amara, com’è quella che abbiamo conosciuto in Hemingway, Anderson, Faulkner». Così resistono, nel tempo, quei ritagli di giornale ingialliti e luminosi: distillati di passione, miniature di grande giornalismo. Sembrano versi abbracciati l’uno all’altro, come ballerini che hanno per un minuto solo interrotto il ritmo della danza e, nel riprendere fiato, si concedono due parole.

«Roma città aperta»

Roma città aperta è un film molto bello e molto importante, moralmente importante. Quell’ansia, quella speranza febbrili e invincibili che ressero tanti italiani nei lunghi mesi della lotta clandestina hanno trovato concreta espressione cinematografica in questo racconto ardente e patetico, nobilmente popolare. E la prima volta forse che la realtà italiana è portata sullo schermo e, pare incredibile, senza rettorica, sia pure quell’intelligente rettorica che ci ha dato Ossessione. La vicenda si svolge nella Roma di Caruso e delle SS, e bisogna vedere come la città è stata resa, questa città che appunto per la sua bellezza illustre ed eterna sembrava negata ad ogni possibilità narrativa. (C’era stata, è vero, splendida eccezione, la Roma corrotta di Moravia; ma la Roma popolare dopo il Belli chi l’aveva più vista). Quel che per noi, oggi, divisi e irritati e un po’ stanchi, il film ci riporta di quei tempi che sembrano già così lontani, è il senso della solidarietà nella lotta, ottenuto artisticamente con l’evidenza dei fatti, senza scoperta predicazione. Il cinema, arte schietta e diretta, può contare più di tanti articoli e discorsi nell’educazione degli italiani. Le cose belle e degne di essere citate sono tante, specie nel primo tempo che si chiude con il rastrellamento di un quartiere popolare, pezzo stupendo, dal ritmo serrato che quasi toglie il respiro. Il lungo brano sulla tortura ha forse un’eccessiva compiacenza nella descrizione degli orrori: ma com’e intelligentemente trovato quell’ambiente vizioso e quasi dannunziano, con l’ufficiale musicista, la spia dagli ambigui gusti sessuali, il tedesco in crisi di sincerità... Non si finirebbe di ricordare i tocchi precisi di realtà e le immagini che dalla nuda evidenza documentaria, per un nulla, arrivano alla poesia: esempio supremo la morte della Magnani, quel suo dolce corpo disteso nella grigia luce dell’«esterno». Ma quel che sorprende di più è la sicurezza della narrazione, la capacità di raccontare cinematograficamente. Son queste le virtù che distinguono un vero regista da un dilettante, sia pure raffinato; crediamo che Rossellini, dopo tanti tentativi, abbia finalmente trovato una strada per il nostro cinema, originale anche se non dimentica delle migliori esperienze straniere. Si vedono ad esempio gli attori, che sono tutti bravissimi, non escluso uno, da Fabrizi, altrove gigione e qui pieno di misura, all’ultima comparsa. Il fatto è che il problema degli attori esiste sino a un certo punto, e un regista veramente personale riuscirà sempre a piegarli alla sua volontà, a farli rendere, così come saprà far rendere cinematograficamente una strada, un cielo, un qualsiasi oggetto.

Attilio Bertolucci

«Scarface»

Un capolavoro assoluto, che affronta ed esaurisce per sempre uno dei temi più formidabili della vita moderna: il gangster. Ideato da Ben Hecht, forse il miglior soggettista americano, e realizzato da Howard Hawks verso il 1932, Scarface ha la violenta essenziale nuda forza del cinema di quegli anni, ai quali dobbiamo Alleluia, Tabu e Front Page. Da allora quanti passi ha fatto Hollywood verso l’alta cucina e la pasticceria, sempre più lontano dalla verità e dall’arte...Scarface (lo sfregiato) è Paul Muni, sicario prima, poi capo di una banda di contrabbandieri di alcool nell’America proibizionista. Non è difficile, purtroppo, indovinare l’origine di quest’uomo, data per pochi, efficacissimi tocchi: l’ambiente familiare, l’eleganza vistosa e, soprattutto, un curioso lato psicologico. Quello che lo fa perdere nella caparbia, cieca difesa della sorella, del suo onore di donna. Mai il bianco e il nero dello schermo avevano trasudato d’un sangue più focoso, la colonna sonora crepitato per raffiche più improvvise e mortali. La tragedia procede senza respiro fra bar equivoci, strade notturne, appartamenti loschi su di un continuo sfondo musicale di colpi di rivoltella e di sventagliate di mitra, questi ultimi appena inventati. Il cinema americano aveva saputo, con questo film, fornire un documento impagabile d’una delle piaghe più orrende d’una civiltà vigorosa ma incontrollata. È stato per questo coraggio, per questa capacità d’autocritica che il male s’è potuto estirpare. Oggi Scarface, eliminate con la fine del regime secco le forme più pericolose deI gangsterismo, resiste, validamente al tempo appunto perché non predicatorio, né propagandistico, ma puramente e semplicemente vero. Non d’una verità meschina e bonaria, ma amara, com’è quella che abbiamo conosciuto in Hemingway, Anderson, Faulkner.

Attilio Bertolucci

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