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Mario Biondi, «baciato dal soul»

Mario Biondi, «baciato dal soul»

di Francesco Monaco

12 Marzo 2017, 09:35

C'è sempre aria di festa quando Mario Biondi arriva in città. Un po' perché il ritorno a casa ha sempre un dolcissimo sapore, un po' perché ogni volta viene tagliato un nuovo traguardo (in questo caso i 10 anni dall'esordio di «Handful of soul»). Ma soprattutto perché la sua musica, sempre più calda e coinvolgente, è un'iniezione di energia e impedisce letteralmente di stare fermi. Il «Best of soul tour», partito dal Carlo Felice di Genova dopo la «data zero» di Crema, farà tappa al Regio il 22 marzo e promette (anzi garantisce) scintille, grazie anche ai sette inediti che aggiungono carburante al serbatoio del recente doppio cd antologico, da «Do you feel like I feel» che con il suo groove irresistibile ha tutti i crismi del classicone, all'ultimo singolo estratto «Stay with me». Inutile guardare le previsioni meteo: al Regio quella sera splenderà il soul.

Mario, come ci si sente ad essere di nuovo in tour?
«Alla grande, siamo partiti con il piede giusto fin dalla prima data. Lo spettacolo è bello, lungo e impegnativo, il pubblico risponde benissimo e la band ancora meglio».

E la setlist si arricchisce di brani nuovi, con la celebre «This is what you are» posta all'inizio dello show e non più tra i bis, dove invece figura «Gratitude», vero omaggio al pubblico.
«E' una scaletta esagerata, direi pazzesca: facciamo 30 pezzi in due ore e mezzo, inoltre abbiamo recuperato anche alcune canzoni che non facevo dal vivo da diversi anni ma che hanno segnato momenti importanti della mia carriera, come If, I love you more o Close to you».

Tornare al Regio significa sempre «giocare in casa»: ma quanto è rimasto di quella sensazione di «rivincita» dopo i lunghi anni della gavetta?
«A dire la verità è un discorso che non mi appartiene proprio. Io cammino sempre in punta di piedi, e mai mi sono sentito arrivato. Sarebbe come essersi arresi a ciò che si è fatto. Ogni volta che canto una canzone è come se la cantassi per la prima volta, anche se magari è la millesima. Se non fosse così, la mia professione non avrebbe ragione di esistere. Certo, al Regio l'emozione c'è eccome, come sempre quando canto a Parma (e ricorda divertito il «frèd da màt» di un Capodanno in piazza Garibaldi, ndr) ma vale anche per altri grandi teatri. So che ad ogni concerto incontro i miei fan della prima ora e chi ha iniziato ad apprezzarmi in seguito. E questo mix è bellissimo».

Come fa un artista ad accorgersi che il pubblico cambia e cresce, solo grazie ai numeri del botteghino?
«I social nework sono molto importanti in questo senso, posso avere davvero un riscontro diretto con le persone, c'è chi mi scrive che non mi aveva mai ascoltato prima e adesso non smette più di sentire le mie canzoni».

Perchè non figurano più muscisti parmigiani nella band? Tanto per fare qualche nome, prima ci suonavano «Satomi» Bertorelli, Michele Bianchi, Beppe di Benedetto...
«Non c'è mai un motivo preciso, è questione di onde, di sound, di situazioni. Ma con Satomi ci vediamo spesso. Per dire: quando sono a Parma è sempre a casa mia. Insegna pianoforte a mio figlio Ray, poi siamo accomunati dalla passione per Gino Vannelli... Anche Michele è coinvolto spesso nei miei progetti. In quanto a Beppe, che è un grande creativo ed è siciliano come me (e ci scherza sopra: «i siciliani, si sa, sono permalosi», ndr), magari in futuro se ampliamo la sezione fiati...».

Domanda stupida, o forse no: ha senso continuare a parlare di voce nera o è solo uno stereotipo? Non è che tutti i cantanti afroamericani hanno quel vocione lì.
«Beh, in effetti negli anni 50/60 gli artisti di colore che andavano per la maggiore avevano timbri particolari, e uscivano un po' dai canoni classici, penso a Ray Charles o allo stesso Louis Armstrong. Poi negli anni 80 è salito alla ribalta il blue eyed soul, con artisti bianchi tipo Michael McDonald o Daryl Hall, che si rifacevano ai maestri della black music. Ma in definitiva sì, è un po' un'etichetta che ci viene appiccicata addosso per comodità: in Italia lo si diceva anche di Fausto Leali. Ma la stessa domanda non andrebbe mai fatta a un artista afroamericano: ricordo un'intervista con gli Earth Wind & Fire a Milano, quando collaboravamo insieme, e un giornalista di Sky fece a loro la domanda 'com'è suonare con un bianco con la voce da nero?' Beh, ci videro una punta di razzismo e lo guardarono malissimo...».

A proposito delle tue collaborazioni illustri, se n'è andato da poco Al Jarreau, con cui avevi anche duettato in «Light to the world». Che ricordo hai?
«E' stato un vero mentore per me, un'autentica fonte di ispirazione. E dopo aver avuto la fortuna di conoscerlo e poter collaborare con lui, mi sono affezionato all'uomo oltre che all'artista. Come spesso sono i grandi, penso anche a Burt Bacharach, era di una modestia incredibile e aveva addosso l'entusiasmo dei bambini. Ma permettetemi di ricordare anche un altro grande con cui ho lavorato, Leon Ware, che ci ha lasciato quattro giorni dopo la morte di Al».

Come scegli le cover, visto che il repertorio è potenzialmente sterminato?
«Anche in questo caso, non c'è mai una ragione precisa. A Nightshift dei Commodores sono legato fin dall'infanzia, era la sigla di un programma che facevo in radio a 13/14 anni. Lowdown di Boz Scaggs mi riporta alla musica che ascoltavo negli anni '80. Altre volte invece cerco appositamente brani che possano andar bene per me, o mi vengono proposti da altri, il dj Bruno Bolla mi manda spesso cose da ascoltare. Serenity, ad esempio, in origine era la cover di un brano tedesco, me ne innamorai immediatamente».

Se te lo chiedessero, faresti il giudice di un talent show?
«Se fosse l'occasione per parlare del mio lavoro, perchè no?»

Vista la tua consolidata statura internazionale: trovi differenze tra il pubblico in Italia e quello che ti segue all'estero?
«Beh in Inghilterra cantano tutti i pezzi, mentre noi italiani, un po' come i francesi, ci sentiamo caput mundi e l'inglese lo snobbiamo. E di capire o meno i testi, fondamentalmente non ce ne frega niente».


  Biglietti all'Arci  

Con lui una band di nove elementi

I biglietti per il concerto di Mario Biondi del 22 marzo al Regio (inizio alle 21) sono ancora disponibili all’Arci di Parma (via Testi, 4) e sul circuito ticketone. Per info: 0521-706214.
Sul palco una band composta da Serena Brancale e Serena Carman cori, Alessandro Lugli batteria, Federico Malaman basso, Massimo Greco tastiere, David Florio chitarre, Marco Scipione sax, Fabio Buonarota tromba e Moris Pradella chitarre, percussioni, piano e cori.

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