Francesco Bandini
Stesso luogo, la strada Massese fra Torrechiara e Cascinapiano; stessa ora, intorno alle 7 di mattina. Stesso freddo che entra nelle ossa, stesso buio pesto che ti fa sentire fuori dal mondo anche se sei nel cuore dell’evoluta e gaudente food valley e a pochi minuti di auto dalla città. Stesse macchine che ti sfrecciano a pochi centimetri, stessi occhi sgranati nell’attraversare con la maggior prudenza possibile una strada che è, a tutti gli effetti, una pista da Formula 1. Soprattutto, stessa sensazione di impotenza di fronte a chi guida infischiandosene delle regole, ma anche di fronte alle istituzioni che da anni sanno di questa situazione eppure permettono che tutto resti cristallizzato e immutabile, sempre in attesa della disgrazia successiva.
Una manciata di giorni dopo la tragedia che ha spento la vita di Filippo Ricotti, un ragazzo di 17 anni che stava andando a prendere l’autobus per recarsi a scuola, la «Gazzetta» è voluta tornare sul luogo dove esattamente due settimane fa, all’alba di un martedì come tanti altri, tutto è accaduto nel volgere di pochi istanti: per capire qual è l’esatto contesto in cui tutto è successo, per documentare quello che chi passa distrattamente in auto non può cogliere. E la prima parola che viene in mente è una sola: paura. La paura di fare un gesto normale come quello di uscire di casa per andare a prendere l’autobus, di camminare lungo una strada, di attraversarla. Forse la stessa paura che fa sì che alla fermata di Filippo non ci sia nessuno ad aspettare i mezzi pubblici. Inutile attendere che arrivi qualcuno: dalle abitazioni lungo la salita dove c'è anche la casa del 17enne e dalle altre abitazioni nei paraggi si vede di tanto in tanto sgusciare un’auto, ma nessuno si avventura a piedi verso quella fermata: forse che i genitori preferiscono portare i figli in città con la macchina anziché lasciare che si avventurino sulla strada della morte? Chissà, magari è proprio così. Oppure è solo una coincidenza.
Ciò che invece non è una coincidenza è la velocità impressionante della maggior parte dei veicoli che percorrono quel tratto di Massese. Praticamente tutti oltre il limite, molti ampiamente oltre il limite, non pochi spudoratamente oltre il limite. Un limite che poi, nel medesimo tratto, è di 50 chilometri orari per chi viene da Parma e di 70 chilometri orari per chi viene da Langhirano. Schizofrenia della segnaletica stradale. Ad ogni modo, 50 o 70 che siano, dei cartelli se ne fregano tutti, ma proprio tutti. Tanto che, se arrivando in auto da Parma ti azzardi a osservare scrupolosamente i 50, lo fai a tuo rischio e pericolo, dovendo fare i conti con automobilisti spazientiti che o ti stanno attaccati, oppure, appena possono, ti sorpassano con manovre nervose e repentine, senza farsi troppi scrupoli se oltrepassano la linea continua o se la visibilità nella semicurva è ridotta.
Ma è camminando sul ciglio della strada, ripercorrendo il percorso fatto da Filippo mille volte prima di quel martedì nero, che capisci cosa deve affrontare chi ogni giorno è costretto a passare di lì perché non ha la macchina e deve comunque andare a scuola o al lavoro. Innanzitutto, il buio. Questa è la cosa che fa più paura. In inverno intorno alle 7 è ancora notte e l’unico lampione è quello al bivio per Casatico. Tutto intorno è il nulla, illuminazione pubblica zero. Solo nei pressi della fermata della Tep in direzione di Parma un paio di lampioncini sul cancello di una casa privata regalano un fioco chiarore a chi è fermo in attesa dell’autobus. Ma per arrivare lì non ci sono alternative: devi camminare nell'oscurità più completa lungo la Massese, dove non c’è marciapiede ma solo una banchina sterrata. A farti luce ci sono unicamente i fari delle macchine che ti sfrecciano a pochi centimetri, in alcuni casi a velocità imbarazzanti, così folli che anche senza un autovelox a portata di mano si possono tranquillamente stimare intorno ai cento chilometri orari.
Attraversare la strada per raggiungere la fermata è a dir poco un azzardo. Dalla parte di Parma le auto si materializzano da una leggera discesa, leggera ma abbastanza insidiosa da far sì che le si possa vedere solo all’ultimo momento; dalla parte di Langhirano a tradire è la semicurva, che anche in questo caso obbliga a drizzare le orecchie più che ad aguzzare la vista, visto che spesso ti accorgi che sta arrivando un veicolo perché ne senti il rumore prima ancora di vederlo con i tuoi occhi. E così capita che – sempre nel buio più totale – debbano passare anche diversi minuti prima di poter attraversare la strada in sicurezza. Alla fine, fra mille attenzioni, ci si butta su quel nastro d’asfalto e si approda dall’altra parte, dove ad attenderti c’è una pensilina sgangherata.
Nei minuti che seguono le 7 di mattina sono diverse le corriere che passano: un autista che ci scorge ci lampeggia per capire se vogliamo che si fermi; un altro accenna a rallentare, ma quando vede che non siamo interessati prosegue; un altro ancora, nel dubbio, si ferma comunque anche se non sarebbe tenuto, per poi ripartire quando capisce che non dobbiamo salire. Quest’ultimo autobus è il 12, quello che avrebbe dovuto prendere anche Filippo quel martedì: si ferma, apre una porta, ma nessuno sale. E riparte: oggi senza Filippo; domani, forse, senza qualcun altro.
LE TESTIMONIANZE
Nell’oscurità una piccola luce avanza tremolante e temeraria lungo la Massese: è il faretto frontale che un podista si è piazzato in fronte per illuminare i suoi passi e, soprattutto, per farsi vedere dalle auto. Marco sfida la sorte ogni mattina percorrendo di corsa il tratto di strada verso Torrechiara. «Qui senza pila sei morto», sentenzia, alludendo alle auto che gli fanno il pelo e precisando che il pericolo «non è solo quando fa buio: qui è sempre così». E aggiunge: «Anch’io ho dei ragazzi che prendono l’autobus a un passo dalle auto: troppo pericolo».
Poco più in là, alla fermata del bus di Cascinapiano in direzione Parma, Cristian aspetta l’autobus in precario equilibrio su una banchina inesistente, letteralmente sul ciglio della strada. «Vengo giusto due minuti prima che passi il bus, per stare qui il meno possibile. La gente corre veramente troppo: ho sempre sperato che mettessero un autovelox, perché qui scambiano la strada per un circuito». Filippo lo conosceva bene: «Eravamo compagni di squadra. Quello che gli è successo è una cosa veramente ingiusta, che si poteva perfettamente evitare. Tutti sapevano del pericolo».
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