Chiara Cacciani
La Parma della scienza ha il fattore H. Lo dice la Virtual Italian Academy, che ogni anno stila una classifica per raccontare il valore del lavoro dei cervelli italiani in Italia e all'estero attraverso il numero che racchiude la loro produttività e il loro impatto scientifico.
E lo sottolinea il «papà dei neuroni specchio» Giacomo Rizzolatti, che di quella classifica è oggi il numero uno nel campo delle neuroscienze e della psicologia. «Il mio è un risultato netto, devo dire la verità - racconta - Una vittoria di misura rispetto al secondo classificato, ma molto più significativa se si considerano solo gli scienziati che lavorano in Italia. In condizioni ben diverse da chi è all'estero...».
Lui che ha deciso di restare, e che per farlo ha scelto la città adottata ai tempi degli studi, allarga velocemente la visuale. Dal particolare - il suo primo posto, con 119 lavori e altrettante citazioni - alla realtà parmigiana che lo circonda. E' così che cita con soddisfazione il 12esimo posto del collega Vittorio Gallese, il 30esimo di Luciano Fadiga («ora a Ferrara ma già nel gruppo che ha scoperto i neuroni specchio»), il 38esimo di Giuseppe Luppino e Maurizio Gentilucci («appena andato in pensione»), il 43esimo di Leonardo Fogassi. «Parma denota un altissimo livello. E il nostro Dipartimento di Neuroscienze dimostra di essere il più forte d'Italia. Tanto più che parliamo dell'ultimo aggiornamento della “Top Italian Scientists”, ma la classifica è piuttosto stabile». «E' come essere la Juventus: non è che l'anno dopo il tuo livello scenderà di molto...», aggiunge, sfoderando uno dei suoi tanti paragoni che raccontano bene la seconda passione: il calcio.
Anche la differenza di condizioni tra chi opera in Italia o all'estero ritorna, e inevitabilmente, spesso. «Il vantaggio di emigrare? Non hai la burocrazia italiana.. Se negli Stati Uniti vuoi comprare una sedia, chiami e te la mandano. Se lo chiedi qui è una lunga trafila.. Per non parlare dei concorsi: io capisco il concorso a vita, ma solo per affidare un lavoro di due o tre mesi devi verificare che non ci sia nessuno in Università che vuole farlo, impostare il bando, aspettare un mese, fare il concorso, avere l'esito, mandarlo alla Conte dei Conti.... ». Perdendo quel vantaggio di tempo che in certi campi può essere essenziale.
«Lavorare in Italia - continua - è molto più difficile. Noi siamo ormai abituati, ma quando arrivano gli stranieri è un disastro. C'è una storia che non so se i parmigiani sanno... ». E' quella dell'Iit, l'Istituto Italiano di Tecnologia. «Anni fa avevamo avuto un contatto: volevano fare qui un loro centro. Il rettore avrebbe messo 3 milioni e loro altrettanti. Avevano mandato come direttore un professore italoamericano di Harvard. E dopo un anno non era successo niente: servivano permessi burocratici che - senza insistere e sollecitare - non arrivavano mai. Per lui era impensabile doversi occupare anche di quello: se ne andò e il centro si trasferì a Trento».
Pensa al presente e al futuro in salita di tanti giovani scienziati, Rizzolatti. «L'unica possibilità sarebbe che l'università uscisse dalla Pubblica Amministrazione. Renzi l'aveva promesso. Non dico che diventi privata, ma che usi altre regole».
Due anni fa, intanto, il suo appello a Parma - «Svegliati o retrocedi. Anche l'Università non ha più campioni e rischia di finire in serie B» - aveva suscitato molto clamore. «Ed è stato utile, sa? C'è molto più attivismo, anche se la ricerca medica resta ancora un po' trascurata». «Di certo - continua - l'arrivo del Cnr è stato importante: i 300mila euro della Fondazione Cariparma hanno dato la prova di quanto si creda nel progetto. Ed abbiamo potuto fare un concorso. E' quello che volevo: dare ai giovani una opportunità». Nei prossimi giorni il Cda del Centro valuterà se promuovere la sede parmigiana da transitoria a fissa, «e sarebbe davvero un'ottima cosa».
Nel frattempo proseguono collaborazioni di ricerca potenzialmente in grado di cambiare la vita di tante persone.
«Con il Centro per l'Epilessia del Niguarda, abbiamo avviato uno studio sull'attività cerebrale sull'uomo, e non più sulle scimmie - spiega -. Circa il 30 per cento dei malati di epilessia non reagisce ai farmaci e ha una vita molto difficile. Se con la chirurgia si porta via il focolaio epilettico, la guarigione è invece del 90 per cento». E il punto è quello: stabilire in quale area il «nodo» risieda. Per farlo, si utilizza la «stereo-elettroencefalografia», la registrazione della attività elettrica dall’interno del cervello. Una fotografia, ma con l'aggiunta della dimensione temporale di più giorni. «Capisci che area del cervello si attiva di fronte a ciò che vede o che fa il paziente, e consenti di individuare il focolaio. A Milano fanno una operazione a settimana: 50 malati all'anno. E' una metodologia costosa ma preziosa, che adesso interessa anche alla Cina».
Ma c'è anche un'altra ricerca che - dice - «mi appassiona moltissimo». Riguarda la riabilitazione di chi ha subito una frattura o una paralisi.
«Si è capito che se si mostrano ai pazienti filmati della corretta attività motoria, i tempi di recupero sono molto più veloci. Al momento è una tecnica usata in maniera molto artigianale all'Humanitas. Per i traumatizzati è magica, per chi ha avuto una paralisi qualcosa fa ma va migliorata: ed è questo il nostro obbiettivo - gli si illuminano gli occhi - Vorremmo svilupparla creando una specie di realtà virtuale: il paziente indosserà degli occhialini e vedrà filmati costruiti in base alla reazioni del cervello alle diverse immagini – una mano che afferra, un giocatore che calcia, un alpinista che scala, - in modo da suscitare quel programma motorio che manca». E che si può ritrovare «specchiandosi».
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