Cambiano i volti e le storie, cambiano le latitudini e i contesti, restano in dote - e che dote pesante - le domande. Sempre quelle: gli interrogativi disperati di chi da quelle figlie, madri, sorelle, amiche non potrà ricevere risposte; gli stessi - increduli - di chi di fronte all'ennesimo femminicidio si chiede come possano salvarsi tutte le altre.
Le altre vittime possibili di una violenza che mai fa rima con amore. Altre donne che spesso - lo abbiamo imparato bene - hanno in comune il destino segnato da quell'ultimo, maledettissimo incontro chiarificatore.
«Perché queste donne accettano di rivedere i loro ex? Ogni storia è a sé, c'è sempre un incastro diverso di concause - spiega Manuela Landi, psichiatra, psicoterapeuta e specialista in Neurologia -. In generale, la prima è crescere in un clima culturale che associa la possessività all'amore. Partendo dal rapporto con certe madri: “Se mi sta così addosso, mi vuole molto bene”. Poi, stiamo parlando di donne che hanno avuto una relazione con quegli uomini, e resta un coinvolgimento emotivo».
Che si associa anche a un altro tema: «Spesso alla fine di un rapporto ci può essere la tendenza inconscia a voler lasciare un buon ricordo di sé: quando una storia inizia, ci si guarda attraverso l'altro e si cerca di corrispondere a quell'immagine ideale, che piace. E la si vorrebbe mantenere anche nel momento della separazione, quando si potrebbe venir detestati». Ecco allora - tra affetto e inconscio - il tentativo di condividere una decisione, di sentirsi meno in colpa, di patire-con, di spiegare ancora una volta perché non è più possibile stare insieme.
E poi il quarto aspetto, forse il più ovvio e insieme drammatico: «E' molto difficile pensare che possa capitare a te - ammette la psichiatra -. Lo vedo parlando con amiche e con pazienti. Persino in quelle che hanno subito violenza fisica, il pensiero è: “Mi picchia ma mi vuole bene, sono io che non ho fatto quello che voleva, anche se era in torto. E se mi ama così tanto, non arriverà mai ad uccidermi”. Ecco, fanno fatica a capire che ci può essere il crollo interiore dell'altro».
Che non è il pluricitato, semplicistico raptus («Ma no, per carità»). Ma piuttosto, ad esempio, ritrovarsi a dover mostrare che non si è ciò che gli altri credono, o vedersi rifiutato dall'oggetto che si pensa di possedere, e dunque di poter perfino «rompere». Parla delle «identità fragili della nostra epoca», la Landi: «Oggi avere una identità stabile è difficile, si ricorre a forme di identità provvisorie. “Se tu mi rifiuti, a questo punto chi sono? Quello che io ho, sei tu: l'unica cosa che io gestisco davvero».
Tra le domande in eredità, anche quella, grandissima, sui campanelli d'allarme. Ci sono? E' così difficile ascoltarli?
«La verità? Ciò che risulta evidente agli altri, spesso non lo è per chi si trova a vivere queste situazioni - racconta la psicoterapeuta -. Di solito il contesto intorno capta la mancanza di empatia di questi uomini, il loro pretendere di far fare ciò che vogliono, cosa nasconde quella volta in cui ti ha chiusa fuori di casa perché sei uscita con le amiche. Ma se loro dicono “E' ora che lo molli”, lei invece si colpevolizza. E le sembra sempre di riuscire a gestirlo, anche cercando di evitare di coinvolgere altri per non preoccuparli». In un grande, enorme cortocircuito.
«Uno dei grossi segnali – continua Manuela Landi - è capire se si sta con un uomo che è aderente alla realtà o che si aspetta che la realtà aderisca a lui. Sono loro i potenziali violenti. Allo stesso modo le donne dovrebbero imparare a distinguere i dati di realtà da ciò che sentono emotivamente: avere su se stesse lo sguardo che avrebbero su un'amica. Invece purtroppo quello che ci trasmette la nostra emotività lo prendiamo per vero: “so che non mi farai mai del male, anche se mi hai già rotto un braccio. So che mi ami e che perdi la testa perché sei impulsivo, ma non andrai mai oltre”. Sull'aderenza alla realtà bisognerebbe lavorare coi ragazzi, a scuola». Anche per domare quel maledetto, atavico senso di colpa femminile, per ragionare su ruoli e stereotipi, su forza e debolezza applicate ai sessi, sulla dimestichezza a maneggiare armi che i maschi apprendono già dai giochi dell'infanzia.
Intanto come ci si salva, però?
«Fondamentale sarebbe essere intransigenti e non accettare la prima violenza: denunciare subito e non coprire - dice la psichiatra -. Spesso accade il contrario: se ti denuncio mi colpevolizzo perché ti metto nei casini. Non serve a niente rivolgersi a carabinieri e polizia? Intanto si dà un segnale: che si chiede aiuto a qualcuno e che non si è in balia di ciò che ci fa subire l'altro. E nella maggior parte dei casi funziona: una volta chiamati per un colloquio formale, molti si rendono conto che stanno esagerando e che rischiano di finire nei guai. Se invece si concede la volta in più, questi uomini si rafforzano nel pensare che è il sistema giusto per ottenere ciò che vogliono».
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