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Trump, il presidente del «Prima l'America»

Trump, il presidente del «Prima l'America»

di Paolo Ferrandi

21 Gennaio 2017, 06:09

Diceva Aby Warburg, il grande irregolare che ha cambiato il modo di fare storia dell'arte, che «Dio è nel dettaglio», cioè che anche i particolari che possono sembrare non essenziali a volte danno conto del vero senso delle cose. E quindi partiamo da un dettaglio per cercare di capire come sarà la presidenza di Donald Trump ora che ha giurato come presidente degli Stati Uniti facendo un discorso molto diverso da quello che ci si aspettava, ma assolutamente «trumpiano» nel suo sviluppo. Secondo quanto riporta il «Washington Examiner» la prima canzone del ballo di inaugurazione è stata «My Way» di Frank Sinatra, la canzone preferita, sempre secondo l'«Examiner», di quello che è ora il 45º presidente Usa. E, a parte il fatto che la canzone è una scelta strana per un'inaugurazione, visto che è un bilancio spavaldo di una vita che volge al termine, si capisce bene perché le parole possano piacere a Trump. «My Way» è un inno a prendere la vita con baldanza, a servirsi, anzi ad «azzannare», porzioni più grosse di quanto si possa mangiare e ad avere pochi rimorsi, così pochi che non vale la pena di ricordarli. E soprattutto è un inno a fare le cose a proprio modo, senza preoccuparsi delle conseguenze. Il primo discorso di Trump è stato un po' così. Bello e articolato come devono essere i discorsi delle grandi occasioni, pieno di citazioni quasi obbligate - il tema del «destino manifesto», la missione epocale degli Stati Uniti, è un classico della retorica politica Usa - ma zeppo anche dei grandi temi che hanno permesso a Trump di vincere. Il nuovo presidente ha martellato - certo con un tono molto più alto del solito, lui che è abituato a usare un lessico elementare - sul fatto che l'America deve recuperare la sua forza e pensare prima a se stessa e poi, forse, al mondo. «America First», prima di tutto l'America: un Paese che, secondo le parole di Trump, si è svenato per aiutare gli alleati senza ricevere nulla in cambio e che ora deve tornare a «comperare americano», ad «assumere lavoratori americani», a «difendere i propri confini e non quelli degli altri». Il tutto con un richiamo, forte e continuamente reiterato, «ai dimenticati», cioè ai lavoratori Usa che hanno perso reddito e posti di lavori qualificati perché le loro vite sono state vendute dalle élite di Washington, troppo aperte alla globalizzazione. Questo ha portato a una carneficina, un «american carnage», di opportunità perse e criminalità in aumento che deve finire subito. E sul sito della Casa Bianca, dove la «transition» è stata subitanea, ci sono già le prime indicazioni di politica economica che daranno sostanza a quelle parole: un piano che prevede 25 milioni di posti di lavoro in più e un Pil che cresce del 4% annuo, ottenuto regolamentando in modo molto più rigido le politiche di libero scambio internazionale, visto che la nuova amministrazione ha deciso di abolire o rivedere i due pilastri del mercato delle Americhe: il Tpp e perfino il Nafta. Ci riuscirà? No, dicono gli economisti. Ma ci proverà, facendo «alla sua maniera», appunto. Quello che è mancato è stato un richiamo all'unità della Nazione dopo una campagna elettorale che ha aumentato enormemente le polarizzazioni. Certo, c'è stato il richiamo all'unità, vista attraverso il prisma del patriottismo, del sangue versato - che è rosso anche se si è neri, marroni o bianchi - per la Patria. Ma non è quello che ci si aspettava. Nessun accenno alle ferite che lacerano il corpo degli States, nessuna ricetta per farle guarire. E anche in questo Trump ha fatto «a modo suo».

pferrandi@gazzettadiparma.net

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