Chiara Pozzati
Non ho mai perso le speranze: sapevo che prima o poi l’avrebbero preso. Ho pregato tanto Dio e il miracolo è accaduto».
Daniela Aldini ha lo sguardo vivace e una voce squillante, quasi allegra, se non fosse per certe pause che ricordano l'abisso. Non un’intervista, quasi una confessione a cuore aperto quella di ieri, poco dopo la notizia dell’arresto di Mohamed Jella. Una chiacchierata intervallata da risate e pianti, ma quel che conta è che «giustizia è stata fatta». Daniela si definisce «al settimo cielo» e non smette più di ringraziare tutti coloro «che non hanno dimenticato Alessia».
Poi torna alla chiamata liberatoria, «stavo guardando la televisione, quando il telefono è squillato. “Carabinieri” mi sono sentita rispondere e per un attimo ho temuto fosse accaduto qualcos’altro di spiacevole – parla a perdifiato, in un vorticare d’emozioni -. Poi è arrivata la notizia: “Volevamo avvertirla che Mohamed Jella è stato arrestato. Si trova in carcere in Tunisia».
Per un attimo non sapevo cosa rispondere: ero confusa. So solo che non ringrazierò mai abbastanza i carabinieri dell’Investigativo». La voce s’incrina: «Ora voglio solo che lo rimandino in Italia, per questo ho già sentito l’avvocato».
Della latitanza durata oltre un anno e mezzo, impressa nei profili Facebook dell’assassino, mamma Daniela non vuole nemmeno sentire parlare.
«Credo che quando lo rivedrò al processo non alzerò nemmeno lo sguardo, non si merita tanta attenzione. Ecco perché non sprecherò nemmeno una parola su di lui e su tutto il male che ci ha fatto. Non lo odio, ho pregato tanto che si costituisse. Per ora però non riesco a pensare al perdono».
E allora parliamo di Alessia, del suo martirio. Ennesimo volto di quella guerra che si consuma troppo spesso fra quattro mura, dove non esiste amore ma solo ossessione.
«Devo ammettere che sono stati anni massacranti, col cuore appeso a novità che non arrivavano – aggiunge ancora Daniela con un fil di voce -. L’idea che potesse farla franca ci ha torturato ogni ora di ogni giorno. Ma non ho mai smesso di credere nella giustizia».
Pietro Pettenati, il babbo acquisito della 38enne, si scioglie in un pianto liberatorio. «Ancora fatico a crederci», sussurra a mo’ di giustificazione. Lui, che non si perdona di non essere entrato nella camera di via Bersaglieri, la mattina dell’omicidio, tira un sospiro di sollievo. «Ora però le autorità tunisine devono agire in fretta e consegnarlo il prima possibile all’Italia. Abbiamo atteso fin troppo a lungo. Vogliamo vederlo in un’aula di giustizia». E affonda: «Mohamed, come decine di altri fidanzati-padroni, non è un uomo. Ha picchiato Alessia tanto da ucciderla senza peraltro capire nulla di lei. Non ha capito che lo amava davvero e ha sacrificato tutto per lui». Due pianeti diversi sotto lo stesso tetto. Jella: uno spacciatore sbruffone, violento fin da ragazzo, incapace di rigare dritto. Alessia l'esatto contrario: «Era convinta che l’avrebbe cambiato, amava il prossimo e fare del bene. Era pronta a mettersi da parte per lui, aveva perfino abbracciato la sua religione». E’ una sofferenza rabbiosa che scava dentro, quella di Pettenati: «Perché non doveva finire così. Ad ogni modo ora guardiamo avanti, al processo». E c’è una lista di ringraziamenti «doverosa» per i genitori della 38enne: «A cominciare dalla stampa locale e nazionale, in particolar modo Anna Boiardi di Quarto Grado, che ci è stata vicino in questa battaglia – rimarca Daniela -. Poi il parlamentare Walter Rizzetto che con la sua interrogazione parlamentare e la lettera all’ambasciata tunisina ha fatto sentire la voce della politica. In un momento in cui tutti sembravano muti».
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