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Muti: «Con Verdi e Toscanini ho la coscienza in pace»

Muti: «Con Verdi e Toscanini ho la coscienza in pace»

20 Gennaio 2017, 11:21

Vittorio Testa

«Torno alla Scala in punta di piedi, porgendo in apertura un pezzo di Catalani dolce, nostalgico e melanconico». E’ un Riccardo Muti sussurrante, come avvolto in quei tre delicati aggettivi, quello che si prepara a salire, stasera e domani, sul podio scaligero dodici anni dopo il burrascoso addio. «Ma di questo non voglio parlare» dice il Maestro intento a un evidente esercizio di autocontrollo per sopire l’emozione del gran giorno, il rientro nella sala del Piermarini: «Semplice: torno a casa, per fare musica in un luogo amato al quale ho dato il meglio di me stesso per vent’anni, ricevendone un grande arricchimento umano e artistico». Un lavoro immenso: cinquanta opere, quasi quattrocento concerti con la Filarmonica; anni creativi e gloriosi, percorsi con un rigore e una dedizione totali, con una severità di stampo toscaniniano esercitata in primis su se stesso. «L’esempio di quel grande uomo e immenso musicista che fu Toscanini mi è stato di sprone a cercare di assolvere al meglio il nostro compito di interpreti: il rispetto dell’autore, la rinuncia a effetti ed effettacci imposti da una prassi esecutiva grossolana e volgare che snatura e ferisce il lavoro del compositore». Primo fra tutti, l’amatissimo Giuseppe Verdi. «Forse la cosa a cui tengo di più è quella di aver riportato alla Scala dopo vent’anni di incredibile oblìo la cosiddetta Trilogia popolare, Rigoletto, Trovatore e Traviata. All’estero trasecolavano nell’apprendere che nel ‘teatro di Verdi’ Violetta non andava in scena da ben ventisei anni!». Traviata significa anche una serata scaligera memorabile, per un’esecuzione rimasta unica al mondo: solo il direttore e i cantanti, solo Riccardo Muti al pianoforte… «Sciopero improvviso di orchestra e coro, il teatro è una bolgia di malumori e proteste, i cantanti sono pronti nei loro abiti di scena. Il primo comandamento del mio essere artista sentenzia l’assoluto rispetto dell’autore e del pubblico. Ma come uscirne? Incredibile ma vero, d’un tratto, come per magìa o provvidenziale mio vaneggiare, è come se sentissi la voce di mia moglie Cristina che mi dice ‘Suona tu!’. In un batter d’occhio, il pianoforte in palcoscenico, i cantanti pronti, si alza il sipario e io suono e dirigo me stesso e gli interpreti». Una meravigliosa e temeraria improvvisazione che fa il giro del mondo. Così come suscitò dibattito e critiche la decisione di togliere l’esplosivo acuto finale della «Pira», quel Do che scatena l’entusiastico furore dei melomani: «Verdi non l’ha scritto, e non a caso: è un’incongruenza in quel contesto musicale. Nessuno ha la verità in tasca, ma comunque ho la presunzione di aver servito onestamente Verdi, il Titano che ha portato la musica italiana dall’Ottocento al Novecento. Quando, il più tardi possibile, trasmigrerò lassù mi presenterò a Verdi e Toscanini con la coscienza in pace».

Verdi, Toscanini, Roncole e Busseto. E Renata Tebaldi. Si affolla di miti nostrani questo pomeriggio colmo del carisma del Bussetano Riccardo Muti: «Mi hanno dato molte cittadinanze onorarie, ma ciò che mi inorgoglisce davvero è l’essere diventato concittadino di Verdi e Toscanini. Ricordo gli stupendi giorni del Falstaff dell’anno verdiano 2001 nel teatro di Busseto, con le stesse scenografie usate da Toscanini nel 1913. Profonda e toccante l’atmosfera, in quel piccolo gioiello, di soave e leggera intesa tra noi artisti e il pubblico, proprio come voleva Verdi, il quale scrisse che il luogo ideale per rappresentare il Grassone era la Villa di Sant’Agata, la Scala essendo troppo grande e dispersiva per un’opera che è una raffinatissima commedia musicale, precorritrice di molti lavori del Novecento, non a caso piacque moltissimo a Richard Strauss».

E’ un pomeriggio milanese freddo e luminoso quello nel quale Muti, appena arrivato da Amburgo, una delle tappe della tournée europea con l’orchestra di Chicago, si crogiola in un confortevole bozzolo toscaninian-verdiano, rievocando liricamente anche il paesaggio, «quegli orizzonti vasti, dall’ampio respiro, nei quali è bello perdersi, lasciarsi rapire, come nelle arie del grande Peppino». E la voce del Maestro mette il bemolle, soffusa nei ricordi: 1986 l’esordio da direttore musicale della Scala con Nabucco. E il bis del «Va’ pensiero»: «Indescrivibile l’intensità di quella serata: già nell’introduzione orchestrale avvertivo alle spalle come un fremito di autentica passione, di partecipazione da parte del pubblico. Alla fine tenni la nota di chiusura più lunga, quasi un rimpianto per dover concludere. Seguì un minuto di silenzio, quel silenzio che suggella lo stupore dell’incantesimo, poi l’applauso squassante e le esclamazioni; tre volte tentai di dare l’attacco di Zaccaria, niente da fare, il teatro rimbombava di «bis!». Era come se il pubblico chiedesse di reimmergersi in quello che è forse l’inno dell’anima italiana, per riappropriarsi della sua identità, per riconoscersi in una comunità d’appartenenza. Furono attimi lunghi un’eternità: concederlo significava rompere la tradizione toscaniniana del divieto di bis; ignorare la tumultuosa richiesta sarebbe stato tradire quella supplica artistica e insieme morale e civile. Decisi per il bis. Sono convinto che Toscanini mi abbia perdonato».

Già, Toscanini, del quale Renata Tebaldi riteneva esservi un unico vero erede: lui, Riccardo. «Non so», si schermisce il Maestro, «quel che so di certo è che quella splendida persona e grandissima ‘voce d’angelo’ mi dimostrava affetto e stima. La ricordo seduta a fondo platea ad assistere a tutte le mie prove. Dopo la prima del Flauto Magico mi raggiunse come di consueto in camerino donandomi una lettera autografa di Verdi. “E’ stata sul mio pianoforte per tutti questi anni”, disse, “adesso mi sembra giusto che faccia compagnia a lei”». Adesso, la quasi impercettibile incrinatura della voce rivela che questo dolce, nostalgico e melanconico pomeriggio sta per essere visitato dalla commozione. Un attimo e subito riecco il Riccardo Muti maestro nel trarsi d’impaccio: «Ma mi dica, e il Museo Tebaldi? E’ bellissimo? Ah, ecco che devo fare! Devo venire a Busseto a vederlo». E schivato il sentimentalismo, Riccardo Muti si congeda con una battuta e una risata: «Mi scusi, mi pare che abbiano …busséto», dice caricaturando l’accento dell’infanzia pugliese a Molfetta: «Devo salutarla. Come sempre, viva Verdi».

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