Chiara Pozzati
«Le ho uccise perché erano possedute dal diavolo. Le ho liberate, ora stanno meglio». E’ pomeriggio inoltrato quando Solomon Nyantakyi, 21 anni, l’occhio fisso e tranquillo, racconta le sequenze agghiaccianti del duplice omicidio della madre 43enne Patience e della sorellina undicenne Maddy. Per la prima volta abbozza un movente surreale, ripete la sua verità, ripercorre quello che è accaduto dopo il delitto di via San Leonardo 21. E’ un lunedì stretto nella morsa del caldo, arriva scortato dalla polizia penitenziaria, mentre tutto intorno è il deserto. Sono lontani flash e telecamere, vicolo San Marcellino è avvolto nel silenzio.
Lui parla, parla per ore, come emerge solo adesso, di fronte al sostituto procuratore Paola Dal Monte e al dirigente della Mobile Cosimo Romano. Al suo fianco l’avvocato Vincenzo Agostino Cecere. Se l’atroce confessione di Solomon, quella affiorata subito dopo l'arresto a Milano e ripetuta più volte resta un punto fermo, nella ricostruzione molti particolari sono ancora oscuri. A cominciare dal movente ripetuto tre giorni fa. E’ stato un raptus di follia religiosa o c’è dell’altro sotto?
Filtra pochissimo sul resto della versione resa agli inquirenti. Anche il difensore non si sbilancia: «Vista la delicatezza della situazione posso solo dire che ha risposto in maniera coerente alle domande del sostituto procuratore - soppesa con cura le parole -. La Procura ha già disposto accertamenti tecnici irripetibili e urgenti sullo stato di salute psichica del mio assistito». In sostanza la parola passa ai medici- l’incarico è già stato affidato - che dovranno stilare una perizia psichiatrica sul giovane ghanese. «In relazione a ciò che emergerà valuteremo i passi successivi» va al sodo l’avvocato. Ma un briciolo di pentimento l’ha mostrato durante l’ultimo interrogatorio? «L’ho visto molto provato - assicura Ceceri -. Lui è molto, molto dispiaciuto e si rende conto di quel che è successo. Bisognerà stabilire in che stato fosse in quei momenti». Il legale evita con garbo qualsiasi altra domanda.
Nell’ufficio del sostituto procuratore Paola Dal Monte, al primo piano, le luci si sono spente solo nella tarda serata. Quando Solomon è stato riportato nel carcere di via Burla. Per papà Fred invece queste prime rivelazioni sono una nuova ferita: «Se davvero ha parlato di diavolo mi sembra una cosa particolare anche per lui» assicura alla fine di una giornata vorticosa. Solomon ha frequentato la chiesa evangelica pentecostale di via Rapallo, come il resto della famiglia, ma non ha mai mostrato segni di fanatismo: «Siamo cattolici, questo sì. Ma nulla di più».
Oltre allo sconcerto affiora la pena infinita di un padre a cui non resta che aggrapparsi ai ricordi e all’amore: «Sto male: ho perso mia moglie e mia figlia, un altro figlio è in carcere. Ci vorrà tempo» dice con la voce che si spezza ad ogni respiro. Raymond è quello che gli resta, ma oggi è ancora sconvolto. È stato lui ad aprire la porta al ritorno dal lavoro, a vedere per primo i corpi della mamma e dellla sorellina martoriati :«Piano piano va avanti, anche per lui è dura», scuote la testa il papà.
Oggi Solomon è di nuovo in via Burla: sorvegliato speciale in quella cella che divide con un altro omicida. Si trova nel reparto Minorati fisici, in cui sono detenuti i malati. Il suo destino è legato alle consulenze degli esperti, a chi deve valutare la sua capacità di intendere. Intanto resta sotto sequestro l’appartamento di via San Leonardo 21. Chiuso da sigilli troppo leggeri per imbrigliare il dolore. Dentro una casa che non sarà mai più la stessa.
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