Georgia Azzali
Schiaffi, offese, umiliazioni. Farmaci dati (o non dati) secondo le prescrizioni mediche. E persone che sarebbero anche state legate al letto. C'era tutto questo distillato d'orrore nell'ordinanza che un anno fa fece finire ai domiciliari le tre operatrici di Villa Alba, la casa famiglia per anziani di via Emilia Ovest poi chiusa. Ma venticinque giorni prima degli arresti, una delle ospiti morì. E proprio i maltrattamenti subiti potrebbero essere una delle cause della morte della donna, 87 anni, parmigiana. L'inchiesta è stata chiusa nelle scorse settimane, e qualche giorno fa il pm Fabrizio Pensa ha chiesto il rinvio a giudizio della titolare della struttura, Maria Teresa Neri, della sorella Caterina e della madre Concetta Elia (che collaboravano nella gestione della struttura) per maltrattamenti da cui è derivata la morte. Un'aggravante pesantissima, che prevede fino a 24 anni di reclusione.
E' stata la consulenza medico-legale a convincere il pm che tra i maltrattamenti e quella morte c'era un legame strettissimo. Un'anziana fragile, certo, ma che non sarebbe state assistita e curata in modo adeguato. In particolare, secondo quanto messo in luce dal consulente della procura, alla donna non sarebbero state fatte alcune flebo necessarie per l'idratazione. O perlomeno, quelle somministrazioni non risultano, così come dovrebbero, dalla documentazione clinica dell'anziana, che comunque sarebbe morta anche a causa di un grave stato di disidratazione.
Un quadro inquietante, almeno secondo quanto emerge dall'ipotesi della procura. Inizialmente, infatti, alle tre operatrici non era stata attribuita l'aggravante della morte. Che ora, invece, viene contestata a tutte, anche se all'interno della struttura i ruoli erano diversi. Maria Teresa Neri era la titolare della struttura. La sorella (accusata anche di furto per aver sottratto materiale sanitario dall'ospedale in cui frequentava un corso) e la madre l'aiutavano nella gestione della casa famiglia. Funzioni e responsabilità che potrebbero incidere se e quando si andrà a processo.
Con quell'aggravante, infatti, si finisce in Corte d'assise, in caso di rinvio a giudizio. A meno che le imputate scelgano un rito alternativo, così la vicenda si chiuderebbe in udienza preliminare, con uno sconto di pena garantito. Ma è molto probabile che la battaglia sarà soprattutto sul piano delle consulenze medico-legali: quella della procura contro quelle dei difensori. «Per ora ho bisogno di valutare bene tutti gli atti prima di esprimermi, avendo da poco assunto l'incarico per la difesa», sottolinea l'avvocato Donata Cappelluto che assiste Maria Concetta Neri.
Per quasi tre mesi, dal novembre 2015 al febbraio dello scorso anno, le «cimici» piazzate dalla polizia avevano captato lamenti. Rumori di percosse. Richieste d'aiuto strazianti. Un problema tecnico aveva impedito di piazzare le telecamere tra le stanze della casa famiglia. Ma erano state intercettate implorazioni come questa: «C'è qualcuno per favore che mi viene a liberare? - diceva una delle anziane immobilizzate a letto -. Non sono mica una ladra».
E poi insulti. Dileggi. Come quella donna che una delle operatrici sbeffeggia facendole il verso del cane. Ma c'era stato anche l'allarme lanciato da una 97enne portata fuori dalla struttura. Parole fondamentali per la ricostruzione della vicenda. Per dare voce anche agli altri ospiti della struttura. Persone che, secondo gli inquirenti, erano completamente soggiogate dalle operatrici. Difficile andare in bagno senza il «permesso», ma anche spostarsi in altre stanze della casa famiglia.
Tutte accuse respinte dalle tre operatrici. Durante l'interrogatorio di garanzia Maria Teresa Neri si era limitata a dire che «solo qualche parola di troppo» poteva essere scappata. La sorella Caterina aveva scelto di fare dichiarazioni spontanee: «Non abbiamo mai impedito ai familiari di venire nella struttura e per qualsiasi malessere degli ospiti venivano chiamati - aveva sottolineato -. E se quelle che si sentono nelle intercettazioni sembrano percosse, non è così in realtà». La madre, invece, aveva scelto il silenzio. Un paio di settimane dopo il tribunale del Riesame aveva revocato i domiciliari, ma solo perché erano venute meno le esigenze cautelari: la società della casa famiglia era stata sciolta e la struttura era stata chiusa. Insomma, il quadro accusatorio aveva retto. E ora per tutte e tre ora c'è quell'aggravante che pesa come un macigno.
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