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Quei giochi estivi di una volta: dai sinalcoli ai "cellulari" fatti di latta

di Lorenzo Sartorio

17 Agosto 2020, 12:15

Un’estate davvero complicata  quella di quest’anno.  
Complicata  è forse  poco, anche perché,  tutte quelle libertà  che ci eravamo  presi  in passato,  ora  sono state compromesse  seriamente  da questo maledetto virus  che  penalizza  specialmente i bambini  i quali,  non solo in spiaggia,  ma  anche in città, devono sottostare  a certe regole  che non vanno certamente d’accordo  con la loro  naturale  esuberanza,  con la loro vivacità  e  con  la loro voglia di stare   all’aria aperta.  
Ma andiamo ora con la memoria alle estati  dei ragazzi  di   parecchi anni fa   e facciamo un salto indietro con la memoria agli anni Cinquanta-Sessanta   Ad orari  stabiliti, per i  ragazzi,  scattava il momento di radunarsi nel borgo, nel viale  o nella piazzetta.   I cellulari  non erano nemmeno   nell’immaginario   delle   menti più  fantasiose,    però   un cellulare «fai da te»  esisteva.    Si individuavano due lattine alle cui estremità  si praticavano altrettanti  fori attraverso i quali potesse passare un filo  che andava annodato ai fori stessi affinché non «scappasse». Una volta  preparato il «telefono», un ragazzo da un capo e l’amico dall’altro, tenendo ben teso il filo, comunicavano a distanza. La comunicazione poteva avere ancor più successo se il filo veniva passato con cera e con pece  da calzolaio.  Il risultato? Qualcosa si riusciva a sentire ma, data l’esigua distanza, erano  più le parole urlate di chi stava  dall’uno e  dall’altro capo del «marchingegno»  che  quel borbottio che proveniva dalle lattine di conserva o di fagioli.  I giochi  si inventavano, come si creavano pure gli  strumenti  atti a praticarli, e non sempre in sicurezza,  come  fionde e   cerbottane. Altri giochi e passatempi di ieri erano le gare con le figurine dei calciatori,  i Giri d’Italia o i Tour  de France  sui marciapiedi o sui muretti  con i sinalcoli delle varie bibite all’interno dei quali,  con tanto di dischetti   di vetro e stucco che le tenevano ferme, gareggiavano  le teste dei più famosi  ciclisti del tempo. I sinalcoli più pregiati erano quelli «rosso- Ferrari» del «Campari Soda» forse perché un po’ più larghi e bassi degli altri e quindi più veloci. Quando i bottegai  riordinavano la merce  che  estraevano dalla confezione, i cartoni,   venivano subito prelevati  e, con quella protezione sotto il sedere, i ragazzi  si cimentavano in spericolate discese  il tutto naturalmente a discapito dei pantaloni che, nella migliore delle ipotesi, si tingevano del verde dell’erba.  Ed ancora: «nascondino, «mosca cieca»,  le varie «conte»,  le gare  con le  biglie colorate sulle montagnole di sabbia dei vari cantieri che stavano nascendo come  funghi.  Le ragazze,  invece, prediligevano «regina reginella» dove,  la bimba che impersonava  la regina,  impartiva ordini ai suoi sudditi,  le «belle statuine»  ed altri giochi al femminile.  I maschi,  meno informatizzati, ma più turbolenti di quelli di adesso,  amavano molto i motori che  però erano tabù,  altro che  scooter, motorini e robe  varie!  I più fortunati possedevano una bici alla quale si poteva montare un… «motore». Ed allora, con l'impiego di un paio di cartoline fissate ai raggi con una molletta da bucato, la bici, si trasformava come per  magia, in una Gilera dal motore in verità un po’ «spernacchiante».  C’era chi usava, al posto delle cartoline, le carte da briscola  del nonno. Ma erano guai  seri quando, alla  rituale  briscola  del pomeriggio con gli amici sotto il bersò,  l’anziano scopriva che, dal  mazzo,  era scomparsa  la «pita»  o  il «fante»  di spade. Altri, invece,  optavano per  «al carètt» e cioè un mix di assi di legno con quattro ruotine a sfera sul quale, dopo una poderosa spinta, il «centauro» saliva sdraiandosi  provando l’ebbrezza di spericolate discese.  Il tutto,  con inevitabili capitomboli che costringevano la mamma, o chi per essa, a  fare impacchi sulla  parte contusa del  ragazzo con carta da zucchero o da macellaio (la prima   di un azzurrone scuro, la seconda giallo - paglia) imbevute d’acqua. Se mancavano  gli sms, esistevano però i fischi.  Infatti, i ragazzi di ieri, sapevano fischiare e, soprattutto, rispetto a quelli di adesso, sapevano sognare.   C’era il fischio di raduno, il fischio di chiamata e quello di pericolo  e cioè  quel fischio lancinante che il più abile emetteva quando  l’ortolano o, peggio ancora, «al guärdji», tendevano una trappola a quei monelli che si introducevano furtivamente negli orti per  fare razzia  di frutta o giocavano  con il  pallone in mezzo alla strada. I più grandicelli, durante le  prime  roventi ore  del pomeriggio, a cavallo della bici,  si spingevano oltre la Centrale del Latte dove la campagna regnava sovrana e lì,  sulla strada del Budellungo, poco prima dello stabilimento dell’Althea,  si  crogiolavano  sotto  la doccia delle pompe idrovore che irrigavano i campi, dopo di che una scorpacciata di pomodori  o di  gelsi  bianchi e rossi  non  poteva certo mancare. All’altezza  della «Cà dal Vèsscov» (Villa Nazzani),   da uno stretto   accesso della mura,   alcuni temerari  si avventuravano  in un «gaziär» (boschetto  di gaggie) per scendere,  disturbando  qualche   coppia di morosi, nel  greto  della Parma.  E lì,  in quel fondone, sotto il Ponte Dattaro, facevano il bagno mentre i più  «sgàggi» (smaliziati,furbi)  provavano  a «grottare» catturando  qualche «cavasèn» o qualche  carpa.  E,  alla  sera,   al Tardini, a  fare da raccattapalle nelle partite  della Coppa  dei bar.  Tutt’intorno   aromi   di chinotto, tiglio ed  anguria. 
I profumi delle  care   vecchie estati parmigiane.
 

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