Franco Maria Ricci aveva scritto un bellissimo intervento - «La grafica a Parma da Bodoni al 2020» - per il catalogo di «Parma è la Gazzetta», la mostra sui nostri 285 anni allestita lo scorso gennaio a Palazzo Pigorini. Ecco il testo.
di FRANCO MARIA RICCI
Il primo Bodoni non si scorda mai.
1963: ero giovane e mi occupavo di grafica, soprattutto industriale. La Biblioteca Palatina inaugurò quell’anno il Museo Bodoniano nel Palazzo della Pilotta di Parma. Fu una folgorazione.
Giambattista Bodoni (Saluzzo 1740-Parma 1813) era stato, me ne resi conto subito, il primo grande artista grafico. L’arte di cui Gutenberg era stato iniziatore in Occidente aveva bisogno di un’estetica; Bodoni l’aveva fondata realizzando, a stampa, una nuova forma di bellezza e di nitore.
Fino a Bodoni il pregio della pagina era legato ai suoi sovraccarichi. Per un committente dalle medie disponibilità economiche bravo era il tipografo in grado di far entrare più testo in meno pagine; per colui che aspirava al lusso, bravo chi riusciva a inghirlandare il testo di più ori e colori.
Bodoni intuì la bellezza del vuoto, dello spazio libero, dell’equilibrio alchemico fra bianco e nero. Limpidi e ariosi, i suoi frontespizi, le sue pagine, i suoi alfabeti restano esempi ineguagliati di un’architettura di pieni e di vuoti.
La diffusione di quei caratteri, così noti da sopravanzare il nome del loro creatore (spesso dicendo Bodoni ci si riferisce più al font che a colui che lo disegnò), rende arduo, per i più, ricordare la prima volta in cui si è incrociato Bodoni. I professionisti lo vogliono sui biglietti da visita, Jobs lo volle nei computer, Parma l’ha voluto sulla sua segnaletica, ma una cosa è sfiorare Bodoni e un’altra incontrarlo come lo incontrai io, giovane e non ancora convinto della strada da percorrere, ammirando le sue lettere (Voltaire chiamava le lettere pitture dei suoni) nelle sale silenziose della Biblioteca Palatina: sfogliando i suoi volumi con polpastrelli timorosi e confrontando le mie ambizioni, non proprio modeste, ma ancora timide, un po’ dubbiose, con quella grazia esigente, sicura di sé, necessaria.
Quell’incontro mi cambiò la vita.
Affiancando alle mie piccole estasi lo studio del personaggio mi accorsi che aveva lasciato una mappa dov’era segnata la via da percorrere per chi volesse farsi suo discepolo.
Come un alchimista, aveva trascorso gli ultimi anni della vita preparando il Magnum Opus, la sublimazione dell’arte in cui era Maestro attraverso la sua separazione in elementi semplici: il Manuale Tipografico,
Centinaia di pagine gremite di lettere maiuscole e minuscole, tonde e corsive, di glifi, di segni, di fregi! Non si trattava di un libro ma della Madre di tutti i libri, esente da asserzioni unilaterali, da imperfezioni, da errori, inevitabili quando si allineano le lettere per farne parole; un Opus senza testo, che in potenza li includeva tutti.
Giambattista Bodoni non aveva fatto in tempo a terminare la sua impresa; a portarla a compimento fu la vedova Margherita Dall’Aglio che, per occuparsi del Grande Manuale (detto Grande per distinguerlo da quello più piccolo, che Bodoni aveva stampato nel 1788 e che era stato oggetto di entusiastici apprezzamenti, finanche da parte di Benjamin Franklin), rinunciò a molte e fruttuose commissioni.
Presi una decisione: ristampare quell’abbecedario sublime, inaugurando una carriera di editore che non sapevo bene dove mi avrebbe portato.
Un giorno mi dissero che a Bruxelles era sopravvissuta l’azienda produttrice di inchiostri di cui Bodoni era stato cliente: quella dei fratelli Dambremé. Fu a quell’azienda che mi rivolsi con l’ambizione di uguagliare nel mio facsimile l'intensità del nero dell'originale bodoniano. Si trattava di un gesto devoto, quasi superstizioso. Ma più importante era la fedeltà alle idee di Bodoni, espresse nella ouverture del Manuale.
Sviluppando la nozione classica di concinnitas, di rispondenza degli elementi, Bodoni faceva dipendere la bellezza della pagina dalla Convenienza (l’accordo delle diverse parti) e dalla Proporzione (l’armonia delle forme), e la bellezza delle singole lettere dalla Regolarità, dalla Nettezza, dal Buon Gusto e dalla Grazia.
Il senso della grafica moderna, con la sua capacità di estrapolare i singoli elementi dal contesto e di elevarli a Segno puro, era già tutto lì.
Le copie della prima edizione del Manuale, esigue per numero (meno di duecento), ma finite in mano alle persone giuste, avevano diffuso nel mondo, insieme al nome di Bodoni, quello di Parma, dove Bodoni aveva diretto la Stamperia Reale.
A ragione il poeta risorgimentale Gianmarco Canestrari definì le pagine bodoniane “nivee parmensi carte”: nivee per la chiara pulizia dell’impaginato, parmensi perché vi si percepiva uno scambio, come tra vasi comunicanti, tra l’artista e la città dov’era vissuto.
Principe dei tipografi e tipografo dei principi: così era chiamato Bodoni – e in effetti le sue edizioni erano cose preziose, alla portata di pochi; ma esisteva un altro, meno divulgato côté della sua attività (un côté che si accorda bene con lo spirito della nostra città, insieme aristocratico e popolare): nelle vesti di Direttore della tipografia di Stato, Bodoni stampò per quasi quindici anni «La Gazzetta di Parma».
Dall’officina di Bodoni usciva una «Gazzetta» che non assomigliava alle altre gazzette. L’eleganza, il nitore erano la dimostrazione di come il grande tipografo fosse capace di trasferire l’inconfondibile sigillo dello stile impiegato nei libri per le Corti a un effimero e maneggevole foglio, che per un terzo della tiratura era gratuito.
Fu così che un ideale elitario di bellezza fluì nelle vene della città e, grazie al giornale, Bodoni passò di mano in mano, venne affisso sui muri, narrò gli annunci e i fatti del luogo, sino a divenire una cosa sola con quelle mani, con quei muri, con quegli accadimenti.
Quando si trattò di scegliere un logo per Parma Capitale Italiana della Cultura 2020, non vidi che una possibilità: scrivere semplicemente Parma e scriverlo in Bodoni; perché null’altro era in grado di esprimere altrettanto bene l’identità di questa città e il suo ruolo culturale. La parola stessa, pronunciata con quella rotondità che è propria della parlata parmigiana e impressa nelle architetture di pieni e di vuoti di Bodoni, ne diventa il simbolo.
Qualche tempo fa in intervistatore mi chiese come si poteva contribuire a proiettare la lezione di Bodoni nel futuro. Gli risposi che la parola proiettare non mi sembrava la più appropriata: Bodoni e Parma non avevano proiettili da sparare, né rivoluzioni da compiere o baratri da superare; la loro lezione doveva solo scorrere, semplice e ininterrotta, come il corso dei fiumi nella nostra pianura.
Da sempre Bodoni è qui, in mezzo a noi.
Il più grande fra i musei bodoniani di Parma non è la Pilotta, dove la mia vita svoltò; è Parma stessa, città viva, ronzante, aperta al mondo e insieme legata al terroir; dove il nitore neoclassico caro a Bodoni ha assunto nel tempo le funzioni tutelari di Genius loci.
Parma è opera di Bodoni non meno di quanto lo sia del Correggio.
Io in questi anni mi sono rivolto dalle cose ai luoghi, e dal costruire impaginati mi son dato a progettare labirinti. Vorrei che anche Bodoni ci insegnasse, oltre allo splendido modo di immaginare libri, quello di immaginare luoghi. Nel suo anno come Capitale della Cultura vorrei che la mia città riprendesse coscienza del suo essere bodoniana. La Pilotta aspetta di diventare quel Centro internazionale per la Grafica di cui molti, sparsi nel mondo, avvertono l’esigenza: un opificio di giovani innamorati del Segno grafico.
Sarebbe bello se Parma 2020 costituisse l’occasione per intraprendere questa nuova avventura. È un progetto che richiederà tempo e impegno. Intanto si può fare subito il primo passo: divulgare l’esistenza e rendere più accessibile un Museo che, almeno sino a oggi, ha condotto un’esistenza un po’ umbratile, con l’aria di chi ci tiene a non essere notato.
Sono io che lo chiedo, o è Bodoni che parla con la mia voce? Non lo so, ma nutro la convinzione che, se oggi Bodoni potesse scegliere un portavoce, sceglierebbe me. Sarebbe il premio più bello alla mia lunga fedeltà nei suoi confronti, sia come collezionista sia come editore.
Da bambino traevo momenti di intensa felicità dalle figurine rare, qualche volta introvabili, che mi procuravo, spesso con astuti baratti. Da adulto ho continuato a essere collezionista, traendone le stesse candide gioie. La mia collezione di edizioni bodoniane è oggi la più vasta al mondo in mani private.
Se mi accadesse di incontrare l’ombra di Bodoni … ma qualche volta, aggirandomi nella mia Biblioteca, ha davvero l’impressione di incontrarla … la saluterei con le parole che Dante usò quando incontrò l’ombra di Virgilio: tu sei solo colui da cu’io tolsi / lo bello stile che m’ha fatto onore.
Tutta la mia attività editoriale si è svolta nel segno di Bodoni; ho usato e continuo a usare i suoi caratteri, non solo nei libri ma nei cataloghi, nei materiali promozionali, in tutto quello che esce dalla mia casa editrice e va in giro per il mondo, anche molto lontano da Parma; senza Bodoni non sarei editore, né sarei io.
La tradizione è qualcosa che va gustato. Mi rende felice e orgoglioso, mentre scrivo le righe che ora interrompo, pensare che siano destinate a un giornale di cui Bodoni fu per molti anni – per dirla con una locuzione di moda quando ero giovane – il Direttore artistico.
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