vita da cronista
Nella mia vita da cronista ho più volte portato il taccuino in una terra dell’Asia che sembra affondare le radici nella tragedia, eppure è avvolto in immagini luccicanti. Il Bangladesh. Il poeta indiano forse più amato nel mondo, Tagore, diceva: «Sembra viva in un sogno dorato». Più piccolo dell’Italia, vi si accalcano centosettanta milioni di abitanti: quasi tre volte il numero degli italiani. Le sue coste meridionali sono coperte dalla più grande foresta del mondo di mangrovie, cioè da quelle piante con le radici periodicamente coperte dalla marea. Qui Salgari aveva immaginato le macabre avventure dei suoi Thugs. Le cronache avvertono che ancora ogni anno bambini muoiono qui annegati in grande numero. In quell’intricato mondo vivono le splendide quanto feroci tigri. Da Parma sono partiti per il Bangladesh molti missionari. Due vi hanno trovato il martirio. Uccisi. Padre Mario Veronesi e Padre Valeriano Cobbe. Nel villaggio di Cobbe vi ero arrivato con un mio collega, Gianni Gelmi, e un medico missionario, Remo Buccari, che avevo conosciuto nell’istituto saveriano di Parma e che nel Bangladesh dirigeva un ospedale. Le prime immagini che avevo incontrato a Shimulia, erano un ragazzetto che tirava scientifiche sassate contro un albero immenso per farsi piovere in testa la cena, qualche fava (mi sembra) di tamarindo e una donna che lavava due bambini nel fresco d’un canale, vicino a un pozzo con incise due parole che mi ero fatto tradurre: Villaggio Giovanni Ventitrè.
Guidati da Cobbe, camminavamo sul filo di un piccolo argine. E pareva il confine tra due mondi. A sinistra il verde, le piantine di riso, diritte, sane, A destra, stoppie e rami bruciati dal sole. Sulla sinistra c’erano i campi di Shimulia. E le case che si vedevano in quel verde, oltre la siepe gonfia degli alberi del pane, erano il Para Gion, appunto il villaggio intitolato al Papa amato. «Non è sempre stato così», spiegava Cobbe. «Da questo paese, quando sono arrivato, volevo scappare. Un paese di morti, sembrava. Poca gente, affamata. Ammalata, ignorante. Quando i contadini dei paesi attorno parlavano di Shimulia sputavano. Dicevano che era una parola capace di infettare la bocca».
L’argine finiva in una macchia di banani. E in capanne animate come in un presepio. Una donna pestava il riso, un’altra attaccava un lumicino alla sua veranda minuscola, due bambini si stiracchiavano una capra.
Shimulia era un tempo un paese di indù tra paesi di musulmani. Indù di infima sottocasta. Tra chi guarda con venerazione le vacche e giudica un delitto ammazzarle, erano calzolai, conciatori di pelle di vacca. Da anni, molte conversioni al cristianesimo. Ma il marchio, paese di conciatori, restava. Agli occhi degli altri indù: l’islam non conosce la malattia delle caste, ma lasciar chiuso il vicino in qualche inferiorità è pur sempre un vantaggio.
C’erano esempi quotidiani. E non allegri. Se un contadino di questo paese andava lavorare nel campo di un musulmano, era pagato meno degli altri. Gli davano da mangiare su una foglia, non su un piatto, perché la foglia la si butta poi via. Se un musulmano passava da Shimulia moriva di sete piuttosto di bere: anche l’acqua di qui era giudicata immonda. Immaginando il loro linguaggio in termini italiani, un musulmano trattava con il “tu” la gente di Shimulia ma le risposte le pretendeva con il “lei”. Gente che avesse campi ce n’era anche qui. Ma terre, di regola, impegnate dagli usurai. Interessi in riso e in denaro: troppo alti per sperare di cancellare il debito. «A scuola, dove insegnavo catechismo, c’erano ragazzi che cadevano svenuti. Non avevano mangiato magari da due, tre giorni. Ribellarsi? C’era soltanto una rassegnazione tetra».
Mi raccontò i dubbi, la pena, le esitazioni dei primi tempi. La prudenza l’avrebbe voluto barricato nel «mestiere di prete». Ma si domandava: che senso può avere predicare a chi ha pancia vuota? E la decisione fu di rimboccarsi le maniche. Di diventare anche lui contadino. Povero. Ma per non lasciare annegare gli altri poveri nella rassegnazione. Un contadino che seminava idee: «La povertà è un valore. Evangelico. La miseria è un’offesa: da sradicare».
C’era un problema da aggredire: l’acqua. Il cielo del Bangladesh se ne sta chiuso per mesi, come una lastra rovente, senza fessure di freschezza, per poi esplodere in cicloni da apocalisse. Nei mesi della pioggia i villaggi sono isole di fango. Poi tutto evapora: la terra diventa dura come la calce. L’acqua è sotto, a pochi metri, ma il riso non ha radici per raggiungerla.
Cercare i pozzi, irrigare. Occorreva un esperto. Cobbe si ricordò che un esperto c’era: non lontanissimo. Un pastore protestante. Andò a proporgli quello che un tempo era impensabile, lavorare insieme, e il pastore accettò. Con entusiasmo.
Un lavoro di anni. Per convincere i contadini a sbriciolare diffidenze, paure, a unirsi in cooperativa, a scoprire l’orgoglio, la forza di camminare insieme. E per convincere la terra a buttar fuori il suo verde. Quel verde che adesso si vedeva attorno. «Shimulia è diventata un bel nome. Nessuno sputa più nel pronunciarlo. L’acqua non è più immonda. Molti, dai paesi attorno, vengono qui a lavorare. Mangiano insieme. Mille famiglie in cooperativa: e nella misura del cinquanta per cento sono musulmane».
Con il riso, era cresciuto un pezzetto di paradiso terrestre? Padre Cobbe sapeva bene di non vivere in un idillio. Indù, cristiani, musulmani assieme in una alleanza tra poveri. I parassiti, gli sfruttatori, i pochi ricchi abituati da secoli a cavare da questa gente, con la violenza del potere, ogni spicciolo di rupia guardavano da fuori (e non benevoli) l’alleanza.
Certi donrodrigo versione bengalese avevano fatto correre l’acqua dei nuovi canali nei loro campi. Pagare una percentuale? La cooperativa l’aveva chiesto. La risposta era stata uno sguinzagliare per Shimulia giovanotti universalmente targati per banditi.
Cobbe aveva raccontato di una riunione comandata da un usuraio: offeso dal nascere della cooperativa dei poveri. Una specie di tribunale. E qualcuno aveva pronunciato la sentenza per l’imputato, il missionario contadino. Una sentenza di morte.
Banditi: ma nati dalla miseria, come sempre e dappertutto. Dalla corruzione seminata dalle rupie dei pochi potenti. Dalla violenza delle cose. Avevano combattuto o tra i “mukti bahini”, i partigiani per l’indipendenza del Bangladesh o tra i “razakar”, i collaborazionisti dei Pakistani: a guerra finita non avevano saputo staccarsi dai fucili. Gianni Gelmi, li aveva fotografati, fucile tra tra le mani, nel giardino della missione. Nel punto, credo, da dove una sera di qualche mese dopo quel fucile (o un altro?) avrebbe punito per sempre il missionario che amava troppo i contadini.
Una sera, raccontata dalle suore che lavorano a Shimulia, il missionario aveva fatto, come sempre, una camminata fino alla loro residenza. Un trecento metri di prato. Si era fermato dieci minuti, un quarto d’ora. Poi si era avviato per il ritorno. Camminava lento, affaticato. L'unica luce era il filo chiaro che usciva dalla sua piccola torcia elettrica. Le suore avevano chiuso la porta . C’era un caldo d’inferno. Il termometro segnava trentaquattro gradi. Padre Cobbe aveva spinto il cancello della missione. Uno sparo dal buio del giardino. Bruciati i polmoni, e la vita. Era riuscito, Cobbe, soltanto a portarsi le mani nel sangue. Quelle mani che ricordo levate sull’altare, mentre la sua voce parlava del Sangue e del Corpo di chi l’aveva mandato in questa avventura. Mani che per evangelico amore erano diventate contadine.
C’è un’altra tomba accanto a quella di Cobbe. E’ di Padre Mario Veronesi, Anche lui martire. Anche lui missionario dell’Istituto Saveriano di Parrma. Ucciso dai fucili dei soldati pachistani quando il Bangladesh stava conquistando l’indipendenza. Un musulmano, che aveva lavorato con loro, cerca di togliersi dal volto la tristezza che gli riga il volto. «Due santi», dice.
(2 - continua)
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