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il racconto della domenica

Ma dove sono le nevi

Il racconto della domenica

11 Dicembre 2022, 12:46

Ormai non oso più confidarlo a nessuno. Che mi manca la neve, quando arriva l’inverno. Una spruzzata almeno, che per una notte si accoccoli sui tetti, anneghi i campi di bianco, dondoli col ramo del pino che sfiora la mia finestrella ad occidente, al posarsi di un passero solitario. Ogni anno, sul far di Santa Lucia, scruto il cielo al tramonto, annuso l’aria, come farebbe Fido, il cane di zio Pepu, in usta dell’ultima lepre. E così aspettando Natale e poi Capodanno. «Dites-moi, où est Flora, la belle Romaine; Hellois, la royne Blanche qui chantoit a voix de seraine. E Jehanne, la bonne Lorraine qu’Englois broulerent a Rouan… Mais où sont le neiges d’antan?» (Ditemi dov’è Flora, la bella Romana; Eloisa, la regina Bianca che cantava con voce di sirena. E Giovanna, la buona figlia di Lorena, che gli Inglesi bruciarono a Rouan… Ma dove sono le nevi di una volta?).
Nevi perdute come le dame di Fronçois Villon. No, nevi più umili: le falde che sfarfallavano alla finestra arabescata di brina, quando sui cerchi arroventati della stufa di ghisa traboccava il latte del mattino sfrigolando dolce odor di bruciaticcio e sbuffi di fumo, mentre mia madre si perdeva un attimo dietro i fiocchi che si infittivano: «Come viene giù! E ha cambiato crivello. Se va avanti così, domani la mangiamo all’impiedi».
Tra uno sbadiglio e un brivido, scaldando le mani contro la scodella calda, già si pregustava la festa della sgüjaröla (pista ghiacciata). Chi ne ha viste più? La neve pestata con piedi, mani, podici roventi, fino a cavarne piste luccicanti sulle quali pattinare nelle ruvide gorle (zoccoloni) a gambe divaricate, capitombolando in soave letizia. La pista più ambita? Quella giù per la Costina, un rivone ad anfiteatro sui campi strappati alle maleacque del “mare” Gerundo. Una ventina di metri di ripido pendio, da cui i più temerari si lanciavano su rozze slitte di legno, che puntualmente cozzavano di prua nel fossatello ghiacciato ai margini della strada sottostante: da lì i temerari venivano sbalzati via, sghignazzanti tra lividi e gibolli che avrebbero ostentato poi come ferite gloriose di tornei cavallereschi.
Capisco l’obiezione alla neve, fratello automobilista d’oggidì. Vialetti da spalare, traffico in tilt. Il fatto è che non esiste narratore fascinoso come la neve. Storie che sanno di favola. Ne ho bisogno, specialmente adesso che non c’è più zio Pepu a raccontarmene di nuove. Ricordo la sua ultima, prima che se ne andasse, il giorno dell’Epifania.
La storia di Jacumin sulle rive del Don, durante la grande ritirata di Russia, nella seconda guerra mondiale. Nevicava quel giorno. Era il tempo che zio Pepu lavorava ancora nell’orto e andava ancora a caccia («La cacia vera è finita - diceva - con i fucili moderni, quelli del bum-bum-bum, sei cartucce per ammazzare un passero»).
Aveva acceso il camino zio e, tramescando con le molle sotto i tizzoni per arrostire un fuso di meliga: «Tu fai il poeta con la neve - cominciò - ma la neve può anche voler dire freddo e fame: due bestie che non capiscono la poesia. Jacumin era il più gracile di tutti noi, ma era l’unico ad avere fatto un po’ di studi in paese. Suo padre aveva un’osteria e poteva mantenerlo agli studi e farlo diventare ufficiale di complemento, non ricco abbastanza per evitargli di andare in Russia. Fosse stato cacciatore come me, avrebbe magari con una lepre o un fagiano (rabbiosa era la fame in quei momenti) trovato qualcuno disposto a cancellare il nome del figlio dalla lista dei partenti per il fronte del freddo. Che Jacumin sia riuscito a tornare vivo da quell’inferno di ghiaccio e di neve, neppure lui se lo è mai spiegato. Ha ripetuto infinite volte quel che gli è capitato sulle rive del Don. Era passato il Natale da pochi giorni. La sua divisione di fanteria era allo sbando. Lui, tenentino di complemento, guidava un manipolo di sventurati in ritirata. I viveri erano al lumicino. La neve copriva tutto, come un campo senza fine, senza una gaba (gelso) all’orizzonte. E sotto quell’angosciante lenzuolo bianco le tagliole del freddo azzannavano i piedi sdoloranti sotto stracci fradici. Andavano verso Ovest, così, perché quello era il punto cardinale del ritorno, ma niente di più preciso, senza sapere se sarebbero arrivati mai da qualche parte. Andavano perché l’alternativa era quella di sedersi e aspettare il gelo salire, nel suo viluppo di morte, dagli alluci al cuore. Quella sera il cielo era pieno di stelle e a Jacumin si ricordò della messa di Natale al suo paese e il coro sgangherato che, prima dell’«Ite, missa est», cantava a tutta ugola: «Tu scendi dalle stelle». Jacumin era troppo disperato o rassegnato per balbettare un mozzico di preghiera al Divin Bambino, affinché - anche senza disturbarsi a scendere dalle stelle - facesse qualcosa per lui e i suoi compagni. Gli scarponi affondavano nel piccia-puccia di tratti fangosi, grattugiavano sinistre lame di ghiaccio. Nessuno della mesta compagnia parlava. Di gridare tutti avevano perduto la forza da un pezzo. D’improvviso il grande silenzio della steppa fu sbrecciato da un urlo, una sorta di sparo nitido e solitario contro l’indifferenza delle stelle: «Malcagad!». Se cercate sui dizionari dei dialetti lombardi, non troverete traccia di questa voce dialettale, se non in quelli del dialetto di Lodi. Un epiteto evocante un fosco marchio di nascita, così fantasiosamente unico, da diventare simbolo di una appartenenza, di una radice. Lui, il tenentino, da quel grido fu colpito al cuore. Per un momento pensò di essere morto e di essere tornato nel suo paese. «Alt!», ordinò alla truppa appena si riebbe. Un soldato, più paonazzo per la rabbia che per il freddo, si fece largo tra gli altri, fino ad arrivare sotto il naso di Jacumin: «Signor tenente, chel malcagad là (e indicò un compagno che cercava di mimetizzarsi nel gruppo) voleva rubarmi il mio ultimo pezzo di pagnotta!». Andrea Maietti

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