inserto la domenica
Una staffetta ideale unisce gli anni di morte e di nascita di tre figure capitali quali, nell’ordine, Michelangelo, Galileo e Newton. L’anno di morte del primo (1564) è quello di nascita del secondo, il cui anno di morte (1642) è poi quello di nascita del terzo. Sembra quasi che attraverso le loro vite uno spirito di genialità abbia continuato a perpetuarsi per più di due secoli. Una genialità che, nel caso di Galileo, ha operato nel doppio alveo di arte e di scienza. Gli vanno infatti riconosciuti tanto uno spiccato talento in campo letterario (per Italo Calvino è stato “il più grande scrittore italiano in prosa”) quanto una straordinaria spinta innovatrice in ambito scientifico. Una seconda staffetta, ugualmente fondata su profonde affinità elettive, colloca Galileo tra due ‘maggiori’ della nostra letteratura: Dante e Leopardi. Non va infatti dimenticato che lo scienziato pisano iniziò di fatto la sua carriera accademica nel 1588 tenendo Due lezioni alla Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante. In esse, il giovane Galileo difese la ricostruzione della geografia e della forma dell’Inferno dantesco proposta da Antonio Manetti, il biografo di Filippo Brunelleschi, autore della famosa cupola del Duomo fiorentino. Come alcuni pensano, proprio la cupola rovesciata del Brunelleschi potrebbe raffigurare l’Inferno immaginato da Dante, con gli affreschi dei dannati di Zuccari dipinti sulle pareti e con la lanterna sporgente a rappresentare l’abisso della voragine infernale. L’Inferno di Dante ci appare infatti come un cono cavo che taglia la superficie terrestre in un cerchio avente diametro pari al raggio della Terra, comprendendo nove ‘cerchi’ suddivisi in otto livelli, come le gradinate in un anfiteatro. Dante ne aveva fornito alcune misure, ma non nella Divina Commedia. Nel riprendere l’Inferno conico abbozzato dal Manetti, Galileo ne condivise l’idea di gradinate sostenute da solido terreno, coperte da una gigantesca volta, la cui stabilità egli dimostrò possibile senza però tener conto, come avrebbe fatto in studi successivi, della resistenza del materiale costituente. Quanto a Leopardi, Galileo non ha potuto che esercitare un’influenza postuma, soprattutto nell’ambito della filosofia e dello stile letterario. Il poeta di Recanati lo ha letto assiduamente, valorizzandone tanto il profilo di scienziato quanto il ruolo centrale da lui ricoperto nella storia del pensiero umano. Così leggiamo nello scritto giovanile Storia dell’Astronomia: “Galilei era filosofo, era matematico; due prerogative, che lo resero abilissimo a porre i fondamenti della scienza del moto”; nello Zibaldone, Galileo è definito “forse il più gran fisico e matematico del mondo… il primo riformatore della filosofia e dello spirito umano”; nella Crestomazia della Prosa, infine, Leopardi raccoglie in forma antologica numerosi brani galileiani sulla natura e sulla conoscenza.
La figura di Galileo, insomma, presenta una straordinaria (e rara) versatilità, che si esercita in una molteplicità di campi, che spaziano dalla scienza alla filosofia e alla letteratura. Ne ha ben scritto lo storico dell’arte Erwin Panofsky, in un saggio del 1954, Galileo critico delle arti, sottolineando come il pensiero dello scienziato pisano proceda secondo un metodo rigoroso in grado di fissare e stabilire precise gerarchie di valori anche in campo letterario e artistico. Un metodo sorretto da una forte razionalità, finalizzata a una ampia conoscenza della ‘natura’ in senso lato, e che egli ha più in generale applicato per separare la scienza dalla religione, dalla magia, dall’arte e dal misticismo. In campo letterario, ad esempio, Galileo ha espresso una netta preferenza per l’opera dell’Ariosto rispetto a quella del Tasso. Il metodo allegorico di quest’ultimo gli ricordava la prospettiva ingannevole delle ‘anamorfosi’, figure che solo guardate in scorcio, da un punto di vista determinato, risultano intelligibili ai nostri occhi, mentre quando le si osservi a pieno campo rappresentano solamente “una confusa e inordinata mescolanza di linee e di colori”. Per Panofsky, Galileo finisce per associare, nella sostanza, la Gerusalemme liberata al poco amato manierismo, istituendo per contro un’implicita equivalenza tra la poetica dell’Orlando furioso e la prediletta arte classica rinascimentale. Entro queste coordinate si comprende meglio il giudizio tranchant riservato da Galileo alla Liberata, definita come “uno studietto di qualche ometto curioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano, o per antichità o per rarità o per altro, del pellegrino”. Uno “studiolo” di gusto manieristico, che, così come è descritto, ricorda, secondo Salvatore Silvano Nigro, la cultura che si respira nella biblioteca del pedante e ottuso Don Ferrante, l’aristotelico manzoniano che si ostinava a negare l’epidemia di peste mentre ne moriva, “prendendosela con le stelle”.
Ea proposito di stelle, nel 1610 vede luce di stampa un’opera rivoluzionaria di Galileo, il Sidereus Nuncius, figlio della diffusione in Europa del cosiddetto ‘cannocchiale olandese’. Tutto era nato quando nel settembre del 1608, Hans Lipperhey, un costruttore di occhiali di Middelburg, località vicina a L’Aia, chiese udienza al conte Maurizio di Nassau, comandante in capo delle forze armate delle Province Unite dei Paesi Bassi, con lo scopo di presentargli una nuova invenzione: “un certo dispositivo grazie al quale tutte le cose a grande distanza possono essere viste come se fossero vicine”. A partire da quella data, la diffusione del cannocchiale fu capillare in gran parte d’Europa, compreso il nostro Paese. A Venezia fu Paolo Sarpi, frate servita dagli spiccati interessi scientifici, a informarne Galileo, che riformò lo strumento applicandovi la propria inventio matematica e superando così i risultati ottenuti dall’approccio empirico degli occhialai olandesi. Così, nel marzo del 1610, viene pubblicato il Sidereus e nello stesso anno il libro e il telescopio di Galileo vengono conosciuti in tutta Europa, facendo crollare di fatto l’intera cosmologia di impianto aristotelico-tolemaico. La luna non poteva più essere ritenuta liscia e di materia celeste incorruttibile, ma rivelava al contrario rugosità marcate, dovute alle sue montagne e ai suoi crateri. Inoltre, analizzando la Via Lattea, Galileo la descrisse come un ammasso di stelle e corpi celesti; Giove risultava un pianeta simile alla Terra, con quattro nuovi satelliti denominati ‘pianeti medicei’, in onore della nobile famiglia fiorentina. Sempre in quel 1610, Ludovico Cigoli, compagno di studi e grande amico di Galileo, iniziò a dipingere a Roma, in Santa Maria Maggiore, un affresco in cui la Vergine sovrastava una luna che mostrava gli stessi tratti osservati al telescopio dallo scienziato pisano: “disuguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra”. L’affresco era portatore di una nuova visione del mondo fisico, e, proprio per questo, attirò su di sé il sospetto e le attenzioni del Sant’Uffizio. Sul finire del 1613, in seguito alle riserve teologiche opposte dalla Chiesa cattolica contro il copernicanesimo, il vento cambiò bruscamente direzione e l’ambasciatore toscano a Roma Piero Guicciardini rilevò che la città eterna non era più “paese da venire a disputare della luna, né da volere sostenere, né portarci dottrine nuove”. Vent’anni dopo, nel giugno 1633, di fronte alla Santa Inquisizione, quello stesso vento porterà burrasca: Galileo, chiamato a rendere conto delle sue tesi sui movimenti del sole e della terra, non poté difendersi con l’uso del cannocchiale, ma solo con quello di una imposta e dolorosissima abiura.
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