Scienze e Scienza
Il progresso delle Scienze, come a tutti noto, è andato di pari passo con la crescente specializzazione in ambiti disciplinari sempre più specifici e diversificati. Questo naturalmente è stato ed è un cammino positivo e indispensabile, richiesto anche dalla crescente quantità di dati e informazioni in tutti i campi del sapere. Ma, forse proprio il mestiere che faccio di archeologa che studia i tempi lunghi della Preistoria, che è in realtà la “Storia profonda” in cui affondano le radici fenomeni e processi che ancora ci riguardano e che toccano tanti aspetti del vivere collettivo, mi ha portato ad avere uno sguardo globale e necessariamente interdisciplinare sulle realtà che studiamo e che cerchiamo di comprendere e ricostruire. Di quelle società scomparse ci rimangono solo “frammenti”, residui materiali lacunosi che la casualità del tempo e delle circostanze ha fatto giungere fino a noi, e la nostra capacità di collegare e ricomporre quei frammenti in contesti di senso è legata strettamente alla capacità di interagire con altre scienze, sia umane e sociali – storia, economia, sociologia, ecc. – che naturali – fisica, biologia, bio-chimica, ecologia, ecc. Anche se sono in gran parte le esigenze legate a questo mio mestiere, dunque, che mi hanno spinto a riflettere sul valore essenziale della collaborazione interdisciplinare nella costruzione di conoscenza, questa esigenza di superamento dei confini tra le discipline e di globalità di visione in realtà riguarda la Scienza tutta, ossia il modo e i modi di conoscere il mondo.
Penso, infatti, che, man mano che la specializzazione crescente ci permette di conoscere in modo sempre più approfondito tanti aspetti e fenomeni della vita degli uomini e dell’universo, diviene sempre più necessario ritrovare i nessi che collegano quei fenomeni e ne spiegano insieme cause e sviluppi, acquisendo uno sguardo multilaterale su realtà complesse, tutte profondamente connesse tra loro. I metodi, necessariamente molto diversi tra una disciplina e un’altra, possono e devono trovare una possibilità di dialogo nella condivisione di obiettivi comuni, che, seguendo percorsi paralleli, si nutrano dello scambio costante tra ricercatori di diverse discipline. E volutamente dico ‘tra ricercatori’ e non solamente tra discipline, perché questo dialogo ha bisogno di un’intesa anche umana, e non consiste solamente nell’affidare un’analisi specialistica a qualcuno, di cui poi si valutano i risultati (cosa che viene ormai ampiamente praticata), ma nel costruire insieme, passo dopo passo, le risposte a obiettivi condivisi, stimolandosi a vicenda e facendo nascere in ognuno nuovi quesiti e nuove curiosità che arricchiscono tutte le discipline coinvolte.
Certamente le fonti e il tipo di dati sono differenti e non tutti gli ambiti del reale funzionano nello stesso modo e secondo gli stessi principi, e ogni scienza ha quindi bisogno dei suoi metodi e procedimenti specifici. Ma collegare i fenomeni per capirli non significa appiattirli su un unico modo di essere e di funzionare. A volte su questo sono stati fatti errori, specie nei momenti di innovazione e di apertura verso campi e metodi nuovi di ricerca che andassero oltre il proprio oggetto tradizionale di studio, come è successo in archeologia negli anni ’70, quando nascevano e si sviluppavano nel mondo statunitense e anglosassone nuovi approcci teorici e metodologici allo studio delle società umane del passato, e si accostavano in modo troppo semplicistico i modi di funzionare delle società a quelli, ad esempio, di organismi biologici, analogia che certo non rendeva conto della diversità profonda di quelle realtà. Ma al tempo stesso, al di là degli eccessi e degli incauti accostamenti comparativi, quel nuovo modo funzionale di guardare alle dinamiche di relazione sociale e ai meccanismi di cambiamento nelle società ispirandosi ad altri modelli ha favorito il dialogo dell’archeologia con altre scienze e ha introdotto nuove prospettive e potenzialità, innovando le metodologie della ricerca archeologica. Quella strada fruttuosa potrebbe e dovrebbe oggi seguire anche il percorso inverso, facendo dei risultati ottenuti negli studi archeologici e storici un punto di partenza per nuove riflessioni e ricerche in altri ambiti disciplinari. Basti pensare al grande contributo che possono dare alle scienze sociali, economiche e politiche, gli studi sulle origini dei sistemi economici complessi e sui loro sviluppi e cambiamenti nel tempo, o agli studi di genetica i risultati delle analisi genetiche sulle popolazioni antiche, o alle ricerche sui cambiamenti climatici e ambientali le osservazioni sulle fluttuazioni paleoclimatiche del passato e sulle trasformazioni dell’ambiente in relazione all’impatto umano in diversi contesti e momenti storici.
Tutte le scienze si avvicinano alla comprensione della realtà studiando come il mondo è cambiato, ossia studiandone la “storia”, che non è solo storia degli uomini ma anche storia dell’universo in cui vivono. L’analisi dei nessi tra i fenomeni e quella delle loro cause richiede, infatti, di analizzarne anche i cambiamenti nel tempo, facendo sì che lo studio del passato e quello del presente si illuminino a vicenda. Ritrovare le radici di alcune pressanti questioni che ci affliggono oggi può anche aiutarci a riflettere sui modi possibili di affrontarle e reagire alle crisi.
L’approccio globale e interdisciplinare alla scienza e alle scienze e l’importanza fondamentale della Storia in tutti i campi del sapere andrebbero recuperati, valorizzati e trasmessi ai giovani nelle istituzioni educative a tutti i livelli, a partire dalla scuola, contrastando la tendenza opposta che in anni recenti purtroppo ha puntato ad una specializzazione crescente specie in ambito tecnologico anche nell’istruzione di base, dando sempre meno spazio a questi valori davvero formativi delle giovani generazioni.
Guardare ai fenomeni insieme da molte angolazioni e punti di vista diversi, inoltre, è ciò che favorisce la creatività e l’innovazione, conducendo su cammini non previsti, impensabili in precedenza, che generano uno sguardo nuovo sulle cose. Imparare dal passato, dalla storia e da altre realtà diverse dalla nostra, a riflettere sulle dinamiche e sulle cause dei fenomeni è ciò che può generare vera “innovazione”, quell’innovazione, cioè, che non è solo né principalmente innovazione tecnologica, ma è soprattutto l’innovazione del pensiero, la capacità di guardare oltre il mainstream e le tematiche e gli obiettivi delle cosiddette “priorità” del momento.
Il modo di procedere della Scienza per approfondimenti continui, la necessità di guardare anche oltre la visione corrente del reale, prevedendo la possibilità dell’imprevedibile, e il bisogno di confrontarsi con i risultati di altri ricercatori richiedono ‘tempo’, tempo per riflettere, per esplorare nuove strade, per documentare i dati in modo rigoroso e per ottenere risultati davvero innovativi. E’ significativo che proprio Eugene Garfinkel, il fondatore del criterio dell’impact factor nella valutazione delle riviste e delle pubblicazioni, nel 1990 scriveva che il progresso scientifico richiede decenni di lavoro e che “il danno alla ricerca viene dalla pressione esercitata dalla società e dalle politiche di finanziamento che si aspettano risultati immediati in ambiti che cambiano continuamente. Questo crea squilibrio tra la ricerca ‘curiosity driven’ e quella ‘objective driven’.”.
Questa esigenza di tempo e possibilità di riflessione è sempre più sentita nel mondo scientifico contemporaneo.
Così, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo è nato in Europa il movimento “Slow Science”, ben raccontato, tra gli altri, da Olivier Gosselain, antropologo dell’Università Libera di Bruxelles, che ha scritto su questi temi vari articoli sostenendo e promuovendo il bisogno di ‘lentezza’ nella scienza, per “ritrovare il piacere e la creatività propria del lavoro scientifico, rifiutando valori improntati alla competitività accademica, alla produttività quantitativa e all’immediatezza, valori dominanti oggi nelle politiche della ricerca, spesso basate, su un concetto discutibile di eccellenza”. Contro la corsa che ci obbliga a “sacrificare la riflessione sull’altare delle scadenze sempre più incombenti (domande di finanziamento, pubblicazioni, relazioni, ecc..)”, bisogna recuperare il valore della riflessione e del confronto, che a loro volta reclamano ‘tempo’. E Gosselain giustamente dice anche che rifiutare questa corsa non vuol dire ridurre la quantità di lavoro, ma semplicemente trasformare il rapporto che un ricercatore ha con il proprio lavoro; e io aggiungo: incentivando una qualità spesso sottovalutata, la ‘passione’, che è una delle migliori e più “produttive” doti per il raggiungimento di buoni risultati.
Altri autori, oltre Gosselain, hanno sottolineato il problema della burocratizzazione della ricerca e della spinta alla competitività, che contrastano con la sua pratica concreta fondata invece sull’impegno reciproco dei ricercatori e sulla loro capacità di dialogare e collaborare.
Lisa Alleva, in un articolo su Nature del 2006, scrive che i criteri di competitività basati sul rendimento quantitativo opprimono la libertà di ricerca e spingono i giovani (e non solo) ad una corsa sfrenata per ottenere finanziamenti e titoli, generando comportamenti contrari al vero progresso della scienza.
A conferma di questo, un altro interessante e recentissimo articolo su «Nature» del 2023 riporta i dati di uno studio statistico effettuato da ricercatori dell’Università di Minnesota su 45 milioni di manoscritti e 3,9 milioni di brevetti dal 1945 al 2010, che ha evidenziato come, mentre il numero degli articoli pubblicati è progressivamente aumentato nel corso del tempo, la loro capacità di rottura e di innovazione reale rispetto alla letteratura precedente è crollata sensibilmente. Il titolo dell’articolo è: “Disruptive science has declined even as papers proliferate”, e il sottotitolo recita che: “La proporzione di pubblicazioni che muovono un campo di ricerca verso una nuova direzione è precipitata a partire dal 1940”. Questi studiosi hanno anche analizzato la frequenza nell’uso di certe parole nei testi scientifici e hanno significativamente notato che, mentre le parole più comunemente usate negli anni ’50 evocavano i concetti di ‘creazione’ e ‘scoperta’, quelle più frequenti nel 2010 fanno riferimento a concetti come improve , ossia ‘migliorare/ ottimizzare/ rafforzare’ o enhance, ‘valorizzare/potenziare/ incrementare’.
Penso fra l’altro sia toccato a tutti noi di osservare come nelle richieste di finanziamento per progetti di ricerca, sia in ambito nazionale che europeo, meno questi progetti mostrano un carattere realmente innovativo e di rottura nelle finalità e/o nel metodo, più ricorre continuamente la parola “innovativo”!
Tutto questo è purtroppo il risultato della pressione esercitata dall’imposizione dei criteri attualmente in uso nella valutazione della ricerca, i quali sono prevalentemente basati da un lato su un’ossessione per la quantità, che va inevitabilmente a scapito della qualità (quanti articoli pubblicati per anno), e dall’altro sull’ingiunzione dell’obbligo all’“innovazione” a tutti i costi come obiettivo a priori, soffocando così di fatto le vere potenzialità creative dei ricercatori; queste, per esprimersi, devono non essere rincorse dal tempo e dall’ansia di pubblicare un dato numero di articoli all’anno, a prescindere dal fatto che i risultati raggiunti siano davvero significativi e potenzialmente utili al resto della comunità scientifica. Anzi in genere si fa un danno ai colleghi obbligandoli a far fronte a montagne di nuovi scritti di cui solo una minima parte è realmente importante e significativa.
Non si innova su richiesta, e la libertà della ricerca è libertà di vagliare e scegliere le proprie strade, avendo il tempo di leggere, documentarsi, riflettere e fare i propri errori, senza condizionamenti dati dall’obbligo ad essere ‘veloci’ e “produttivi” e a seguire i temi e gli obiettivi cosiddetti “prioritari” in quel dato momento. Le ricadute positive e i benefici per la società di una ricerca veramente libera verranno poi e saranno magari sorprendenti, ma solo se non poniamo fretta e non incaselliamo tutto in gabbie predefinite. E questo vale soprattutto per le giovani generazioni che devono formarsi e costruire il loro percorso, senza dover dare la caccia alle citazioni e all’obiettivo di pubblicare un certo numero di lavori in riviste accreditate e valutate in accordo ai criteri di impact factor o alle liste nazionali di qualificazione in fasce di merito, A, B, C. E’ la qualità del lavoro pubblicato che abbiamo il dovere di valutare in modo prioritario, anche a prescindere dalla qualità della rivista in cui è pubblicato. Fra l’altro questa classificazione in Italia da un lato non corrisponde in molti casi al reale riconoscimento di qualità in campo internazionale, dall’altro, e soprattutto, delimita le riviste valutate in settori disciplinari rigidi, andando contro quella interdisciplinarità di cui ho parlato finora. Per fare un esempio clamoroso, qualche anno fa ho scoperto che PNAS, i Proceedings della National Academy of Sciences americana, che hanno uno degli impact factor più alti al mondo e dove scrivono molti premi Nobel, pur includendo al suo interno i settori di social sciences, economic sciences e anthropology (che negli Stati Uniti comprende anche l’archeologia), mentre naturalmente è considerata di fascia A per le scienze fisiche e naturali, non viene neppure nominata nel settore delle scienze umane! Queste barriere fanno un danno sensibile anche proprio all’interdisciplinarità che a volte è già in atto, ostacolando la pubblicazione incrociata di informazioni nate dalla collaborazione di più discipline diverse, e scoraggiano la libertà di pensiero delle giovani generazioni.
Il bisogno oggi abbastanza diffuso di ridare alla scienza i suoi valori di tempo, riflessione, libertà ha fatto unire gli studiosi che avevano dato vita al movimento Slow Science in una sorta di ‘Slow Science Academy’ nata a Berlino nel 2010, in cui un gruppo di ricercatori si è unito con l’intento di creare un luogo di ricerca che fosse un ‘luogo del sapere’ e non un ‘luogo di potere’, un laboratorio in cui i ricercatori si sentissero liberi di leggere, studiare, formulare idee, preparare con cura i loro progetti, fare errori, e scoprire la difficoltà e la ricchezza di comprendersi, soprattutto tra scienze umane e scienze della natura. La Slow Science Academy nasce per preservare questi principi su cui si è fondata la scienza per secoli, e vuole essere un luogo ispirato dalle antiche Accademie, in cui si possa sviluppare il dialogo faccia a faccia tra diverse discipline e ricercatori, e si possa “discutere, pensare, meravigliarsi”.
L’Accademia dei Lincei, con le sue tradizioni e la sua ricchezza disciplinare può essere uno di questi luoghi, dove le diverse discipline e i diversi studiosi possano interagire in piena libertà, senza pressioni di sorta, dimostrando come è bello e utile superare le barriere tra le scienze e offrendo ai più giovani un campo in cui liberare il proprio potenziale creativo. Le diverse iniziative prese dall’Accademia in questi anni, i premi alle giovani leve della ricerca, e altre iniziative che possono venire in futuro, potrebbero favorire la formazione e il consolidamento di un tale “laboratorio” per l’esercizio della scienza libera e lenta, e per il dialogo multidisciplinare.
Un ultimo appello che vorrei rivolgere alle figure istituzionali che possono indirizzare le future politiche per la ricerca, riguarda due punti fondamentali toccati in queste riflessioni: uno è quello di dare più importanza e valore nella ‘valutazione della ricerca’ ai criteri di qualità dei singoli lavori rispetto alla quantità e alle sedi di pubblicazione, così da incentivare nelle giovani generazioni il desiderio, la possibilità e il tempo di svolgere lavori seri e approfonditi dando spazio alle proprie potenzialità creative. Il secondo augurio è che nelle future politiche di finanziamento si dia sempre più valore ai progetti a lungo termine, non sacrificando la ricerca alla velocità e all’immediatezza del risultato.
Come lo stesso Gosselain ha scritto: “Gli alberi a crescita lenta alterano più stabilmente e durevolmente il loro ambiente rispetto alle erbe selvatiche” con la loro vita breve e veloce.
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