ORIZZONTI LETTERARI
Nel 1934, novant’anni fa, sul «Lavoro» (all’epoca uno dei più prestigiosi quotidiani di Genova) comparve un’intervista alla donna cannone di un festival locale. Il pezzo, allontanandosi dal prevedibile taglio pruriginoso, approfondiva non tanto il fenomeno da circo, ma «l’ambigua, la fantasiosa, la straordinaria Teresina», una donna colta, che viaggiava e che aveva visto, dalla sua roulotte, mondi lontani. Il pezzo, un capolavoro di scavo psicologico, sorprese anche il direttore del giornale perché a firmarlo era stata una delle più giovani collaboratrici della redazione: Mariù Rossi, 23 anni. Il suo vero nome era Maria Vittoria e, ancora non lo sapeva, ma sarebbe diventata una delle più importanti giornaliste italiane del Novecento vivendo ben tre vite. Eccole.
Maria nasce per la prima volta a Roma, nel 1911; il padre è generale, la madre, ebrea, una donna elegante e coltissima. La figlia prende tutto da lei: autodidatta, a vent’anni parla fluentemente, oltre all’italiano, l’inglese, il francese, il tedesco e lo spagnolo. Legge un libro al giorno: divora Proust (saprà praticamente a memoria la «Recherche»), Musil ed è folgorata da quella britannica rivoluzione che si chiama flusso di coscienza. Timida (complice anche la fortissima miopia), Mariù, così tutti la chiamano in casa, decide presto che alle parole degli altri deve aggiungere le proprie. Ed è fortunata perché, quando si trasferisce con la famiglia in Liguria, Mussolini ha appena dato ordine di lasciare la cronaca nera in mano ai segretari (collusi) delle questure quindi i lettori saltano volentieri alla terza pagina. Lì, tra costume, moda e piccola cronaca, si è aperto dunque un varco, lo spazio ideale per una ragazza che vuole imparare il mestiere. Ricorderà così, anni dopo, il suo battesimo di carta: «Scrissi un pezzettino per il giornale di una società marittima. Lo spedii al capo-ufficio pubblicità che quel giorno festeggiava la nascita del dodicesimo figlio maschio. Sarà di buon’umore, pensavo, e magari invece era lì a strapparsi i capelli. Però l’articolo non lo strappò ed apparve».
Nel 1932 esordisce sul «Lavoro» con un pezzo sulla fine della stagione balneare e il commuovente saluto dei bagnini agli avventori. L’articolo è firmato con lo pseudonimo Marlene, il primo di tanti. Annota in merito Claudia Fusani che alla Brin ha dedicato il documentatissimo saggio «Mille Mariù. Vita di Irene Brin» (Castelvecchi, 2012): «Scrivere sotto pseudonimo è un’esigenza dettata da una necessità sociale - la figlia di un alto ufficiale non può portare il nome della famiglia su una gazzetta - e da una scelta “tattica”: è un modo per nascondere la propria identità di ragazza controcorrente che entra nel difficile mondo delle redazioni con spirito ribelle, ma anche timoroso».
Insomma, la giovane Mariù, grande appassionata di travestimenti (da piccola, a Carnevale, adorava vestire i panni di Giovanna d’Arco o di Caterina de’ Medici) ha già capito l’antifona: per competere con la maschia concorrenza dovrà diventare camaleontica. E l’unico modo per affinare la tecnica è fare quello che le riesce meglio: scrivere.
Scrive dei bozzetti borghesi (la descrizione di un tè tra signore), di viaggi - veri o immaginari -, ma dimostra una capacità unica nell’indagare vicende all’apparenza minori, come quella da cui siamo partiti. Il direttore, stupito, le affida varie rubriche e arrivano così i primi riscontri (un biglietto con scritto: «Brava Mariù, farai carriera» è firmato da un certo Luigi Pirandello) e le prime amicizie, come quella con Indro Montanelli.
Poco tempo dopo è a Roma per un ballo mondano e conosce il tenente Gaspero Del Corso, parlano di Proust per tutta la sera: è un colpo di fulmine. Così, nel 1937 per la giovane giornalista cambia tutto: si sposa (Gaspero sarà il suo compagno per tutta la vita, ma la sua taciuta omosessualità sarà un peso devastante per la coppia) e inizia a collaborare con Leo Longanesi. L’editore infatti ha notato il lavoro di Mariù e sta cercando firme per «Omnibus», il primo rotocalco italiano. Longanesi è di destra (simpatizza con il fascismo), ma anche un talent scout straordinario e trasforma la schiva collaboratrice di provincia in un fenomeno.
Gli inizi non sono facili - gli articoli tornano alla mittente con una sola parola, «rewrite», o con una ragnatela di correzioni o rimproveri - il talento però trova presto il suo corso e a Mariù arriva un telegramma dal suo direttore: «Bellissimo pezzo. Trovato nome». Ecco così lo pseudonimo Irene Brin, «colmo di greco fatalismo e di soave tintinnante veneziana levità» (Concita De Gregorio), che la rendono la penna più apprezzata nel raccontare i mutamenti di costume. Un marchio? No, di più, un genere: se un articolo mette il naso nelle abitudini dell’italiano medio e contiene leggerezza, ironia, leggero snobismo e gusto per l’aneddoto o per la citazione letteraria (Irene continua a leggere un libro al giorno, anche nella vasca da bagno) allora è una «brinata». Mariù è nata la seconda volta.
Il suo sguardo caustico non risparmia nessuno: dall’anziana dama inglese che si presenta alla fotografia del passaporto insieme ad un giovane gigolò argentino alle donne «chiassose e vuote» che passano le serate alla Capannina di Forte dei Marmi in cerca di marito, dagli intellettualoni che al Festival di Venezia ridono anche se non capiscono le battute dei film in lingua originale agli aristocratici che danno serate in cui vige «un sistema a conferenze alternate e sorrisi falsi». Insomma, come ben sintetizza Fusani, Brin si interessa «alla moda, all’estetica, ai locali, ai guardaroba e a quello che succede in Francia, Inghilterra e Stati Uniti: dalle gelatine agli elettrodomestici, dalle creme alla chirurgia estetica. Ogni cosa per lei è cultura».
Nel ‘39 «Omnibus» è costretto a chiudere, ma Mariù è ormai cercata da tutti. Così, pur continuando intimamente a sentirsi inadeguata, ma temendo di uscire dal giro ed essere soppiantata dai colleghi uomini, la giornalista comincia a scrivere ovunque e per chiunque (anche per il regime, e le sarà sempre rinfacciato). Le sue identità si moltiplicano: è Ortensia quando parla di teatro, Geraldina Tron quando disserta di cinema o arredamento o semplicemente I. B. o I.Brin perché, come ricorda lei stessa in una lettera, «i direttori dicono che bisogna far dimenticare la femminilità senza rinunciare alla vasta popolarità».
Il periodo della guerra non è facile: segue prima il marito sul fronte dei Balcani (alcuni reportage costituiranno la base del suo primo libro, forse il migliore, «Olga a Belgrado») poi, dopo l’armistizio, la coppia rientra a Roma. Gaspero, disertore, vive in clandestinità così lei siede alla macchina da scrivere per sostentare entrambi. Ma i soldi delle collaborazioni e delle traduzioni non bastano così Mariù si improvvisa mercante d’arte: comincia vendendo oggetti usati poi, nel dopoguerra, fonderà insieme al marito la galleria L’Obelisco. Lo spazio triangolare, a due passi da piazza di Spagna, diventa «la finestra da cui Roma si affaccia sul mondo e il mondo su Roma» (Fusani) ospitando le avanguardie europee e rilanciando gli artisti italiani, rauchi dopo il silenzio del ventennio. Ma Irene Brin (che adesso figura persino sull’elenco del telefono) non si ferma qui: il boom è alle porte e tutti adesso guardano in avanti, c’è voglia di leggerezza.
Così, il 7 gennaio 1950, ecco l’ultima mossa del camaleonte, la terza nascita: su «La settimana Incom Illustrata», una delle riviste più famose del periodo, compare la Contessa Clara Radjanny Von Schewitch. Segni distintivi: settantenne, austroungarica, nobile, sopravvissuta a due guerre mondiali (e ad un paio -?- di matrimoni), numero incalcolabile di figli, ma soprattutto fine conoscitrice del mondo. Il successo è strepitoso: per diciotto anni il nuovo volto di Irene elargirà ai lettori consigli di ogni tipo (ad un aspirante poeta che chiede a chi far leggere i propri versi fornirà l’indirizzo di Giuseppe Ungaretti, ad una che si lamenta di avere una liaison con un uomo di trent’anni più giovane risponderà: «Credo che qualcuno qui stia scherzando: o il suo amante con lei, o lei con me»).
La stasi la spaventa - le crisi depressive sono frequenti, a causa dei non detti con il marito e anche di una mancata maternità che le pesa (nel ‘52 abortirà spontaneamente al terzo mese) - e così è frenetica, inarrestabile: pubblica libri che raccolgono i suoi articoli (spassosi «Usi e costumi» e il «Dizionario del successo e dell’insuccesso»), organizza mostre e sfilate in tutto il mondo e diventa anche editor dell’ufficio italiano di «Harper’s Bazaar», inaugurando il concetto di «made in Italy» per la moda femminile.
Nel ‘68 i primi problemi di salute: viene operata, ma continua a lavorare a ritmi vertiginosi. Poi nel maggio dell’anno successivo, di ritorno da una mostra a Strasburgo, si sente male e viene portata nella casa di famiglia di Bordighera. Muore lì, le sue ultime parole - bellissime - sono: «Voglio fare un viaggio». Ne aveva appena concluso uno lungo cinquantotto anni, di cui trentotto a contatto con le parole, collaborando con dodici quotidiani e trenta settimanali e realizzando più di centocinquanta traduzioni. Ma, forse, per capire davvero chi è stata Mariù-Irene-Clara e il suo itinerario di vita, più che osservare i numeri, occorre fare nostro un gesto di Concita De Gregorio: «Da ragazzi, negli anni dello studio, facevamo un esercizio: aprire a caso uno dei suoi libri e leggere una riga qualunque. Non sbagliavi mai, c’era dentro tutto».
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