Csac
Con l’esposizione Archivio paesaggio. L’Italia del secondo Novecento nelle collezioni Csac, il Centro mette in mostra sé stesso nella sua preziosa ed essenziale funzione catalogatrice per creare ulteriori relazioni. L’esposizione restituisce gli esiti del progetto di ricerca triennale, finanziato dal Miur e intitolato Accessibilità: dall’archivio fisico all’archivio digitale e ritorno. Progetto di innovazione tecnologica e gestionale per la promozione e la valorizzazione del Centro Studi e Archivio della Comunicazione – Csac dell’Università di Parma. La mostra s’inaugura sabato prossimo (14 settembre) nell’Abbazia di Valserena e si snoda come un percorso intorno al tema del paesaggio, delle sue codificazioni e trascrizioni, condotto sulle tracce archivistiche delle trasformazioni che, a partire dal secondo dopoguerra e nel corso di un quarantennio, hanno attraversato l’Italia riconfigurando spazi e territori, aspirazioni e tensioni, immagini e immaginari. La scelta condotta su una selezione di materiali d’archivio ha dettato l’articolazione del percorso espositivo, che si traduce in un viaggio attraverso l’Italia del secondo Novecento e allo stesso tempo dentro l’archivio, i linguaggi, i racconti e le sedimentazioni di senso che esso racchiude.
«La convivenza di raccolte, fondi estremamente eterogenei per natura, provenienza, tipologia di materiali e la struttura di Csac come centro di ricerca interdisciplinare, hanno favorito l’instaurarsi di relazioni tra i diversi archivi; quindi, fra i dati - scrive Mariapia Branchi in un saggio del catalogo della mostra riflettendo sul senso dell’operazione stessa -. Questa impostazione metodologica ha caratterizzato lo Csac prima ancora che la tecnologia ne esaltasse le potenzialità e ne incentivasse la pratica. La raccolta di dati, esplicitata attraverso la catalogazione standardizzata e la digitalizzazione, offre uno spaccato non neutro dell’archivio, di ogni singolo fondo in esso conservato e dell’archivio Csac nel suo complesso».
Il punto è che questi sono cosa viva e formano una sorta di Paesaggio culturale, definizione che allude a «un luogo in cui esistono narrazione e relazioni capaci di estendere il patrimonio culturale a nuovi pubblici». E così il titolo della mostra è anche una dichiarazione d’intenti, oltre ad alludere ad un contenitore dei materiali presentati suddivisi in otto percorsi diversi che mettono insieme artisti, designer, grafici, progettisti e fotografi. Tra questi l’interessantissima committenza Foto Vasari Roma conservata presso la Sezione Fotografia, denominata nello schedario dell’azienda «Amati amministrazione» e identificata con il numero 10/17 che permette di approfondire il percorso artistico di Giovanni Amati, produttore e imprenditore cinematografico, proprietario intorno agli anni Sessanta di oltre cinquanta sale cinematografiche. Le sette sale dislocate in vari quartieri della città di Roma sono fotografate dallo Studio Vasari tra il 1953 e il 1960. Politeama Adriano, Cinema Aureo, Cinema Paris, Cinema America, Cinema New York, Cinema Broadway e Cinema Royal sono testimonianze di una specifica tipologia architettonica nella fase di maggiore espansione dell’industria cinematografica, e anche di maggior popolarità di tale forma spettacolare, e strumenti ulteriori di comprensione di quella particolare storia delle città con il loro paesaggio e del loro spettacolo. Le immagini qui presentate, sono altresì indicazioni del modo di raccontare le nuove architetture da parte di uno dei più rilevanti atelier fotografici della capitale. L’Archivio Foto Vasari Roma conservato allo Csac è costituito da circa 340.000 lastre negative su vetro e da 3.200 stampe. Tra le committenze (dai cantieri dell’Anas alle Ferrovie dello Stato) ritroviamo Giovanni Amati che appunto chiama Vasari a fotografare dal 1953 al 1960, queste sue sette sale cinematografiche. La serie conta sette scatole per un totale di 70 negativi lastre: tra le foto ritroviamo sale che nascono come teatri e che negli anni ’50 subiscono importanti trasformazioni per essere utilizzate come cinematografi come nel caso del Cine Adriano.
Anche a Milano la sala cinematografica assume nel secondo dopoguerra un ruolo fondamentale nella vita della città, diventando così un luogo privilegiato anche per le ricerche di architetti e artisti. Esemplare è il caso del Cinema Arlecchino che, progettato da Roberto Menghi e Mario Righini, viene inaugurato nell’ottobre del 1948, presentando due preziosi interventi plastici di Lucio Fontana: l’Arlecchino, una enorme scultura in gesso, cemento e mosaico policromo, collocata sul soffitto dell’atrio di ingresso del cinema e una Battaglia in ceramica policroma posta proprio sotto lo schermo. Come testimoniano le fotografie conservate nel Fondo Roberto Menghi, gli interventi di Fontana, insieme a quelli di Piero Fornasetti e al pavimento progettato dallo stesso Menghi, trasformano il cinema in un laboratorio di modernità, all’insegna della «integrazione delle arti», elemento centrale nella ricostruzione postbellica. Il cinema, inoltre, nel paesaggio urbano incide con i manifesti che devono stimolare il desiderio e la curiosità dello spettatore attraverso un linguaggio facilmente riconoscibile e interpretabile. La diffusione del manifesto cinematografico si rivela un importante fenomeno che ha contribuito alla creazione di un immaginario visuale collettivo nelle principali città del Bel Paese. Attraverso lo studio dei bozzetti conservati presso Csac di Giorgio Olivetti, Angelo Cesselon, Averardo Ciriello è stato anche possibile riflettere sui processi di costruzione dell’immagine e sulle numerose modifiche richieste dalla committenza.
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