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inserto la domenica - A tu per tu con i grandi autori

Raffaele La Capria, prosa perfetta e un unico protagonista: il Tempo

Raffaele La Capria, prosa perfetta e un unico protagonista: il Tempo

di Isabella Donfrancesco

04 Novembre 2024, 09:49

«Quando ero ragazzo ero un bravo tuffatore: facevo i tuffi acrobati
ci con il sal-
to mortale. Anche un tuffo ri-
chiede uno sforzo. Ma un bel tuffo è quello nel quale questo sforzo non si vede, come per il gabbiano che quando vola e batte le ali sembra sia fermo nell’aria. Anche nello scrivere io mi sono posto questo ideale. Alcuni come Baldassarre Castiglione nel “Cortegiano” chiamano questo la sprezzatura: fare sembrare lievi e facili le cose difficili»: mi consegna questa chiave della sua poetica Raffaele La Capria nella prima di tre interviste realizzate a distanza di dieci anni una dall’altra nella sua casa romana di piazza Grazioli.

La Capria, Dudù per gli amici, ha i modi affabili da aristocratico napoletano non disgiunti da qualche piccolo vezzo («Sa che sono uno dei rari scrittori ad avere un Meridiano in vita?», mi dice indicandomi la bella fila di Meridiani Mondadori disposti uno accanto all’altro sul ripiano più alto), ma appena la conversazione si fa più intensa rivela una profondità e una sensibilità che mi conquistano. C’è molta sostanza dietro il suo racconto di sé, degli affetti, di Napoli e di Capri, della guerra, del cinema e del suo grande amore, l’attrice Ilaria Occhini che in quel giorno della primavera del 1993 intravvedo mentre si affaccia per salutare il marito prima di uscire. Tutto appare leggero, semplice, ma semplice non è. Come nel volo del gabbiano e nella letteratura o nel tuffo acrobatico ed elegante dal terrazzo di Palazzo Donn’Anna dove La Capria ha trascorso la giovinezza.

Il nuoto e il nuotatore, il tuffo e il tuffatore sono elementi imprescindibili della sua storia, che è innanzitutto una storia di acqua nella quale il mare in ogni sua riposta profondità è il vero territorio dell’estro liquido dello scrittore.

«Infatti - mi dice - i soli luoghi importanti per uno scrittore e per chiunque sono quelli nei quali nasce e si sviluppa la sua memoria immaginativa, l’identità più segreta, fatta di immagini sensoriali e mentali che si presentano nei momenti più imprevisti e si legano ai cinque sensi. Per me soprattutto alla vista».


La sua poetica della “bella giornata” che lo ha collocato tra i grandi intellettuali del Novecento fin dal suo folgorante romanzo polifonico del 1961 Ferito a morte nasce da lì. La Capria ne ha argomentato in libri di magistrale teoria come Lo stile dell’anatra o False partenze nei quali la sua prosa perfetta attraversa piani di memoria e li salda tra loro in una ideale autobiografia letteraria.

«Per me ogni libro è un primo libro», mi dice. Capisco da questa ripetuta affermazione che torna in ogni nostro incontro quanto la convinzione della ciclicità del tempo sia un cardine della sua poetica e della sua vita. E il Tempo è il vero protagonista della sua opera.

Una vita lunga la sua: nato il 3 ottobre del 1922, La Capria si spegne alla vigilia dei cento anni, il 26 giugno 2022. Il liceo ginnasio Umberto I di Napoli è il territorio delle prime grandi amicizie destinate ad accompagnarlo nei decenni che seguono: Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Luigi Compagnone, Giorgio Napolitano, Francesco Rosi sono tra i nomi eccellenti di quel gruppo di studenti destinati a vario titolo a lasciare una traccia significativa nel Novecento e oltre.

Con Compagnone La Capria avrà modo di condividere l’avventura della prestigiosa rivista Sud, palestra di talenti e intelligenze nel meridione di primo dopoguerra. Con Rosi firmerà le sceneggiature di alcuni film indimenticabili come Le mani sulla città e C’era una volta. Con Patroni Griffi farà incursioni nel mondo del teatro. E tra gli amici della vita matura un posto speciale occupa Goffredo Parise, del quale lo scrittore mi parla con nostalgia e commozione durante il nostro ultimo incontro, alla fine del 2019. Mai in competizione, sempre vicini e sinceramente complici, questi due grandi autori del Novecento condividevano le vacanze a Capri nella casa amatissima di Dudù.

Capri, Napoli, Posillipo, Roma: punti cardinali di un’esistenza attraversata con passo lieve ed elegante sempre alla ricerca dell’armonia perduta. Posillipo, del resto, nasce dalle parole pausi-lypon, pausa al dolore, parentesi azzurra. Tregua.

Ed è una tregua con lo sguardo perso nel mare di Posillipo quella che mi concedo visitando Palazzo Donn’Anna, due anni fa, accolta da amici dello scrittore sulla terrazza che un tempo fu il trampolino per i tuffi del giovane Dudù. Qui la grazia sontuosa della natura sembra invocare gli dèi e le sirene sulla città assolata di una bellezza struggente popolata di contraddizioni.

«Si è creata intorno a Napoli un’incrostazione concettuale che ha fatto diventare uno stereotipo Napoli ogni volta che se ne parla e noi naturalmente dobbiamo liberarci da questo per poterne parlare come si parla di qualsiasi cosa, cioè con libertà, senza soggiacere ad alcun pregiudizio, né favorevole né sfavorevole – mi aveva detto La Capria –. Ogni napoletano ha il problema della propria città e di come mettersi in rapporto con essa. Da questo rapporto fatto di odio e di amore, fatto quindi di contrasti continui, è nata anche gran parte della mia vocazione artistica perché non avrei potuto scrivere “Ferito a morte” se non fossi nato in una città che mi poneva dei problemi. Quindi per me il fatto di essere nato lì è stato determinante, importante. Identitario».

Nei luoghi di Ferito a morte, dove vado per realizzare un omaggio a La Capria, colgo tutto il senso delle parole dello scrittore, la sua analisi lucida del rapporto tra Natura e Storia alla ricerca dell’Armonia mediterranea capace di tenere tutto insieme: Vico e Pulcinella, Napoli e l’Europa, le grandi idee e le canzonette, la miseria dei vicoli e la grandiosa nobiltà del mito. Tutti elementi della sua scrittura, a far da corona al grande protagonista: il Tempo.

Mi torna in mente un ricordo che La Capria mi ha affidato durante il nostro ultimo incontro, nel dicembre del 2019: «Agli inizi della quinta elementare tornavo a casa con i miei libri e attraversavo i giardini della villa comunale e all’improvviso un canarino si posò sulla mia spalla. Io ebbi un’emozione grandissima per questo fatto perché a un bambino che vede un canarino giallo che parte da un albero e viene diretto sulla sua spalla fa una certa impressione e cominciai a sentire il cuore che mi batteva in un modo tale per cui il canarino addirittura lo doveva aver sentito e se ne scappò di nuovo. Poi arrivai a casa e dissi a mia madre: “un canarino si è posato sulla mia spalla” e appena pronunciai quella frase mi accorsi che non avevo detto niente di quella emozione che avevo provato. E allora cominciai a pensare: “come si fa a dire quello che è successo?”. Sì, è vero che un canarino si è posato sulla mia spalla, però questo cuore che batteva come faccio a comunicarlo? E allora ho capito che scrivere significava comunicare un’emozione».

Conservo gelosamente questa lezione solo apparentemente semplice, un segreto prezioso, una folgorante benedizione sulla via dell’Armonia bella e sincera come una confessione. Elegante come un tuffo dalla terrazza sul mare di Napoli.

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