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Canapa, pianta che diventava abito da sposa

Una risorsa economica scomparsa. Coltivata soprattutto in Appennino, era utilizzata per produrre tessuti

Canapa, pianta che diventava abito da sposa

di Lorenzo Sartorio

04 Agosto 2025, 09:29

I corredi delle nostre nonne, custoditi gelosamente in lignei bauli o in monumentali armadi deodorati accuratamente con sacchettini di fiori essiccati di lavanda, contenevano capi per lo più di canapa: lenzuola, federe, salviette in verità un po' ruvide ma eterne. Si fa presto a dire canapa ma, questa erba, per divenire tessuto, doveva attraversare diverse fasi che costavano un duro e meticoloso lavoro alla gente dei campi di ieri. Alla coltivazione e alla lavorazione della canapa che, sia nella nostra provincia che nella vicina Lunigiana, rappresentava una significativa risorsa economica, numerosi ricercatori, studiosi, etnologi hanno dedicato studi ed approfondite ricerche. Giovanni Pasquinelli, bercetese doc, già maresciallo della Guardia di Finanza, innamoratissimo della sua terra e dei suoi monti, in un delizioso libro ha raccontato, come in una fiaba, l'epopea della canapa nel nostro Appennino.
Forse pochi sanno che Berceto in particolare, ma un po' tutto il nostro Appennino, un tempo era un importante opificio di lavorazione della canapa oltre che di coltivazione di questa erba la cui tela fece felici, anni addietro, tante giovani spose impreziosendo il loro corredo. Erano tempi di fame, di privazioni, di emigrazioni, di fatiche, di lavoro duro, di veglie trascorse nelle stalle e negli essiccatoi, di mangiari poveri. Erano tempi in cui la gente aguzzava l'ingegno ma, soprattutto, piegava la schiena, non certo per accumulare ricchezze, ma per mettere insieme il pranzo con la cena.
«Il 22 agosto 1544 fu trovata una biscia al Riole in una canapaia da mastro don Francesco Gabbi, barbiere, di tale grossezza che nessuno la volle affrontare né con pietre né con legni, ma un certo Brocardo Picio andò con un archibugio, l’ammazzò e la portò in piazza; questa fu misurata (ed era) lunga due braccia, grossa come tre, (tanto) che nessuno la poteva circondare con ambo le mani; aveva la testa come un sasso». Il fatto singolare non sta tanto nelle dimensioni del rettile, ma che a Riole di Berceto, in quell'epoca, ci fosse una delle tante canapaie che allora sorgevano in zona. Un’epopea, quella della canapa, che vide protagoniste le donne intente a filare alla sera, poiché, di giorno, erano impegnate nei campi alla fioca luce di lanterne ad olio o acetilene attente, però, a non sprecare troppa luce. Già, la canapa, quella pianta miracolosa che, un tempo, ogni contadino e ogni montanaro coltivava nel suo pezzetto di terra per mantenere quell’autosufficienza necessaria al fabbisogno della propria famiglia. Le cascine o le corti d’una volta, infatti, erano dei piccoli «fortini» dove non mancava nulla e tutto si produceva in modo molto autarchico: dal pane al vino, ai materassi, alle lenzuola appunto di canapa come, di canapa, erano quelle ruvide salviettone delle nostre nonne che avevano il profumo di quei bucati fatti con l’acqua dei ruscelli e la cenere.

Ad esempio, in un documento datato 1811 del comune di Berceto si apprende che il mercato dove si vendeva abitualmente canapa e lino era Calestano, inoltre che la canapa si seminava nei migliori fondi, si coltivava con la vanga e la zappa e si usava letame di pecora. Altre notizie curiose: a Berceto, nel 1812, le filatrici erano 700, a Borgotaro tremila, a Compiano 200 mentre a Pontremoli quasi tutte le donne filavano la canapa. Pasquinelli da ragazzo, unitamente al padre, svolse il mestiere di segantino e concia-canapa , seguendo la tradizione antica dell’emigrazione nei territori lunigianesi dei bercetesi, proprio per esercitare in quei luoghi questi mestieri oggi scomparsi. Un'interessante ricerca sulla lavorazione della canapa nelle nostre colline è stata effettuata, anni fa, da un gruppo di ragazzi della scuola elementare di Bazzano con la supervisione delle loro insegnanti. A Bazzano, nel suo circondario ed a Cedogno esistevano molte «canapaie» ed ogni famiglia coltivava un piccolissimo appezzamento di terreno lavorato a canapa, proprio con l’intendimento di farsi i vestiti. Le famiglie contadine che non avevano la possibilità di acquistare la stoffa, seminavano in primavera la canapa nel campo o nell’orto. «Tre semi per ogni impronta di gatto», questa era l’unità di misura della semina proprio per ottenere piante e fibra di ottima qualità. Ogni pianta («manela») veniva accuratamente tagliata, quindi le piante erano raggruppate in un «masol», un fascio che veniva legato ad una scala per poter procedere ad un allineamento dei vari mazzi che dovevano essere più o meno della stessa altezza. Dopo di che, arrivava il momento in cui i mazzi dovevano essere immersi nell’acqua a macerare. Ed allora, venivano scavate delle fosse e, per circa una decina di giorni, la canapa pressata da pesanti pietre del fiume, restava in ammollo fintanto che, marcendo, affiorava la «lidga». In quei momenti, accanto alle fosse sorvolate da zanzare, tafani, moscerini ed insetti d’ogni genere, rane , rospi e rettili vari, il puzzo era mefitico e nauseabondo per quei poveri raccoglitori o raccoglitrici che si apprestavano ad affondare le mani nello stagno per recuperare l’erba ormai sfilacciata.
Si recuperava quello che restava dai «masol», quindi, si lavavano bene nell’acqua corrente del fiume sbattendoli con forza sulle pietre, dopo di che, era compito del solleone asciugarli quando i contadini li appoggiavano sulle siepi. Le principali «fosse» scovate nel bazzanese, grazie alla ricerca condotta dai ragazzi, erano localizzate a Case Coruzzi, Borelli, Varano, Grupet, Camposa, Viza, Sota al Mont, Fontana, Calestino, Pradeni, Mulino, In fonda al Rivi, Rissol, Braglie e Chiaviche. Per liberare le fibre si usava la «gramla» mentre i «canavoi» cadevano a terra. Era il tempo per ottenere il filato: se ne ottenevano di tre tipi, ma solamente quello di prima scelta veniva trattato con rocca e fuso. Per ottenere il filato si usavano attrezzi speciali: una sorta di grossi pettini con lunghi denti che «pettinavano» energicamente i mazzetti di canapa. Per sbiancare la tela si accendeva il fuoco sotto il «fogón», nel frattempo nella «sojóla» (bigoncio in legno) le matasse erano cosparse di cenere dove galleggiavano per molti giorni. Dopo di che un’altra risciacquatura nell’acqua del torrente prima di usare attrezzi quali: il «guindel» e l’«aspa». Finalmente giungeva il momento della tessitura: compito molto delicato e... guai a sbagliare un filo! La tela era dunque pronta per fare lenzuola, federe, camicie da notte da uomo e da donna, tovaglie, canovacci, grembiuli e quant’altro serviva alla famiglia contadina che, con i frutti della propria terra, non solo si nutriva, ma si vestiva. La canapa veniva seminata il 25 aprile, ricorrenza di San Marco, giornata in cui nei campi si effettuavano le «rogazioni», il raccolto seguiva di poco quello del frumento mentre a filare si iniziava dopo l’Immacolata (8 dicembre) e si continuava durante tutto il periodo invernale. Si filava a mano con la rocca ed il fuso durante le veglie dove la gente si radunava nelle rispettive case, a serate alterne, lavorando e facendosi compagnia, discutendo di tutto e di niente al ritmo cadenzato degli attrezzi da lavoro mentre una fioca lucina, proveniente da una «lùmma a òli frusst», rischiarava quelle fredde serate nel corso delle quali la gente dei monti preparava la propria tela. Che era, poi, quella molte volte ruvida della vita. Esistono nella cultura contadina leggende ed empiriche consuetudini legate alla lavorazione della canapa. Citiamone alcune. Quando le donne davano i semi di canapa alle galline, le galline facevano più uova. Quando le donne filavano la canapa si mettevano in bocca una castagna secca per facilitare la salivazione perché dovevano inumidirsi spesso le dita per attorcigliare meglio la fibra. Quando le donne andavano nei terreni seminati a canapa (canepari) per estirpare le erbacce, avvertivano un gran mal di testa per le esalazioni di anidride carbonica che emanava la canapa. La gente, ignorando questi effetti dannosi alla salute, giudicava queste povere lavoratrici delle fannullone. Col fusto secco della canapa si facevano delle specie di fiaccole che i bambini, alla sera, tenevano davanti alle donne che filavano per rischiarare l’ambiente. Con la canapa migliore i giovani, per Carnevale, realizzavano parrucche, mentre, quando due giovani decidevano di sposarsi, il fidanzato regalava alla futura sposa una «navetta» per tessere alcuni capi della dote con incise le iniziali oppure un cuoricino.

Per ottenere le corde o le funi che servivano non solo in campagna e nelle abitazioni, ma anche nelle imbarcazioni, entrava in scena al «cordär» o «cordonén» che utilizzava la canapa più robusta, ottenuta facendo invecchiare le piante del canapaio. Di solito il cordaio lavorava in coppia e, avendo bisogno di molto spazio, svolgeva la sua attività nei prati incolti, nei cortili e nelle aie. Il salice, in «pramzàn sàloz», era un'altra pianta sacra per i contadini di ieri ed assolveva a diversi compiti sempre legati alla vita dei campi o a quell’artigianato che offriva la possibilità di sbarcare il lunario intrecciando quei rami flessibili che venivano trasformati in cesti e cestini. I contadini, dopo aver raccolto i rami di salice, li selezionavano e li dividevano per dimensione legandoli in mazzi.
I mazzi venivano fatti seccare in un luogo asciutto e ventilato, possibilmente in piedi e non al sole. Prima della lavorazione bisognava mettere i rami in ammollo per alcune ore per poterli piegare a piacimento nella realizzazione di cestini, cesti, canestri per la frutta e sottopentole. Un’altra importante funzione dei rami di salice era quella «äd ligär al vidi», liturgia che si compiva alla fine di febbraio-inizi di marzo «cuànd vjóli e sprèli» spuntavano nei campi per salutare la primavera.

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