Viaggio negli States
Partito presto da Miami, dopo aver attraversato il Seven Miles Bridge sotto un acquazzone tremendo, arrivo a Key West nel tardo pomeriggio.
Key West, a casa di Hemingway
Agosto è il mese meno indicato per viaggiare in questa parte di mondo. Ma io devo assolutamente respirare l’aria della casa dove è vissuto per una parte della sua vita uno scrittore tanto amato: Ernest Hemingway.
A Key West, reduce dal successo di “Fiesta”, Hemingway ha terminato “Addio alle armi” e lì sono nati capolavori come “Le nevi del Kilimangiaro”, “Breve la felice vita di Francis Macomber”, “Avere e non avere”, “Morte nel pomeriggio”, “Verdi colline d’Africa”. Nell’isola lo scrittore aveva alloggiato per anni in diversi appartamenti, ma la sua prima vera casa fu quella al 907 di Whitehead Street, acquistata nel 1931 dallo zio della seconda moglie, Pauilne Pfeiffer, oggi museo meta di migliaia di aficionados. Lì è rimasto, tra un viaggio e l’altro, fino al 1940, scrivendo, pescando, ubriacandosi, organizzando incontri di box, parlando con gli isolani, coccolando Snow White, l’amata capostipite della colonia di gatti a sei dita che popola ancora la villa.
Il giorno dopo il mio arrivo la giornata è serena. C’è da attendere per la visita guidata e così mi aggiro per il giardino lussureggiante, dove svettano palme e cresce una varietà impressionante di piante tropicali. E’ tutto pieno di luce nella grande casa in stile coloniale francese, con le alte finestre gialle in perfetta armonia con i muri bianchi e il verde scuro dei balconi.
Arrivato il mio turno, entro nella prima stanza, dove viene raccontata subito la storia sentimentale dello scrittore: appese alla parete vicino alle finestre le foto delle sue quattro mogli incoronano la sua, posta al centro. Gli interni sono sobri, arredati con gusto e con vari stili: mobili spagnoli, mattonelle portoghesi, lampade art déco. In ogni stanza gli immancabili gatti, su una sedia o su un davanzale.
In un'altra stanza fa bella mostra la celebre Underwood portatile dello scrittore e nello studio, distaccato dal corpo centrale della casa, una Royal consumata dalla salsedine rimane eroica sul tavolino dove era solito scrivere. Nelle diverse stanze le tante foto dell’Hemingway pescatore, cacciatore, pugile, giornalista, inviato di guerra. C’è anche la celebre foto da lupo di mare, scattata a Cuba nel 1957, da Yousuf Karsh. Sotto la foto, una targa ricorda l’ammirazione del presidente J.F. Kennedy per il coraggio dello scrittore. La piscina, la prima ad essere realizzata a Key West, costata ai coniugi Hemingway una fortuna, risplende al sole. Lo scrittore amava nuotarvi nudo e questo spiega i muri di mattoni rossi che contornano la villa, rarissimi da queste parti. Il merchandise dedicato allo scrittore, esposto nel negozio all’interno, è ragguardevole: gadget di ogni tipo, shopping bag, segnalibri, tazze, orecchini a forma di gatto, block notes, diverse edizioni dei romanzi. Hemingway e il suo mito, si sa, si vendono bene. Ma è proprio questo mito, continuo a dirmi, che va abbattuto. Riusciremo davvero a capire il fondo tragico racchiuso nelle vicende dei suoi personaggi e il profondo senso etico della sua opera, solo dopo aver separato lo scrittore dal personaggio macho e un po’ spaccone che ha voluto presentare al mondo, e dentro il quale ha nascosto il suo più vero io, trasfondendolo invece nei suoi romanzi e nei suoi racconti. Che riguardino soldati, toreri, cacciatori, pugili, che raccontino di amore o di morte, della bellezza della vita così come della sua mancanza di senso, le storie di Hemingway rivelano sempre l’enorme compassione che aveva per i suoi simili. Comprenderemo appieno la qualità della sua scrittura, scarna e accuratissima, e l’impegno, preso con sé stesso e con i lettori, ricordando che per Hemingway scrivere era innanzitutto ricerca dell’autenticità: “La cosa più difficile al mondo è scrivere una prosa onesta e sincera sugli esseri umani. Per prima cosa devi avere un argomento; poi devi sapere come scriverlo. Entrambe le cose impegnano un’intera vita ad essere imparate”, scrive nel 1934 in uno articolo per la rivista “Esquire”. E un anno dopo, sempre su “Esquire: “Scrivere bene significa scrivere vero”. Questa è la sua più grande eredità, il più importante lascito a scrittori, giovani e vecchi.
Lascio la casa. Farò un giro al vecchio porto dove lo scrittore aveva “Pilar”, la sua barca da pesca. Guarderò il famoso tramonto di Key West. E ripenserò a Santiago e a quel gran libro sulla pietà per animali e uomini che è “Il vecchio e il mare”, scritto nel 1951 a Cuba da un Hemingway non ancora devastato. Dieci anni prima di darsi la morte a Ketchum, Idaho.
Rowan Oak, la casa di William Faulkner
Dal cancello un sentiero di ciottoli rossastri si snoda dentro un bosco di alberi altissimi fino all’ingresso della grande casa sotto un porticato con bianche colonne quadrate in stile neoclassico, tipico delle dimore del Sud degli Stati Uniti. Sono a Rowan Oak, la tenuta che William Faulkner acquistò a Oxford, Mississippi, nel 1930 e dove visse fino alla sua morte insieme alla moglie Estelle. Questo è il luogo dove lo scrittore, nato nel 1897 a New Albany, poco lontano da qui, decise di ritirarsi per scavare nel fondo di tenebra della sua terra e di sé stesso, trasformando il mondo chiuso di una piccola cittadina sudista, piena di pregiudizi razziali e di passato che non muore, in un’opera universale, trasfigurando il tragico destino dell’uomo attraverso una scrittura complessa, polifonica, a tratti oscura. Sono il solo visitatore oggi. A Rowan Oak tutto appare immerso nel silenzio e nella discrezione. Vi regna l’austera postura di un signore del Sud, ben vestito, amante dei cavalli e del golf, della pipa e del whiskey, dedito ad un lavoro solitario, A Rowan Oak verranno alla luce opere indimenticabili: da “Luce d’agosto” a “Non si fruga nella polvere”, da “Assalone, Assalonne!” a “Scendi Mosè”. La porta a rete bianca è la stessa che Mario Materassi, gradissimo conoscitore dello scrittore e traduttore dei suoi romanzi, allora giovane studioso, non riuscì a superare, rimanendo fuori a scambiare appena qualche parola con William Faulkner, che non volle riceverlo. Il culto della privacy, si dirà, e Faulkner ne era sicuramente un ostinato difensore. Scrisse perfino un pamphlet, “Privacy”, uscito nel 1955, la cui prima edizione italiana si deve al Garante della privacy, nel 2001.
Del resto, non mai ha voluto essere un personaggio da copertina. In una celebre intervista a “The Paris Review” affermava: “L'artista non ha importanza. Solo ciò che crea è importante, poiché non c'è nulla di nuovo da dire. Shakespeare, Balzac, Omero hanno tutti scritto delle stesse cose, e se fossero vissuti mille o duemila anni in più, gli editori non avrebbero avuto bisogno di nessuno da allora”.
L’atmosfera è tranquilla nelle sale della “mansion”, un senso di intimità famigliare emana dalle poltrone, dai mobili di legno scuro, dal salotto, dal pianoforte a mezza coda, dalle tende che schermano la luce alle finestre, dalla cucina ancora tutta ingombra di pentole e utensili.
Da una sorta di chiosco in legno in un corridoio si può ascoltare la voce dello scrittore che declama il suo discorso per il conferimento del Nobel nel 1949, oppure che spiega come pronunciare correttamente la parola “Yoknapatawpha”, il nome dell’immaginaria contea creata dallo scrittore nella quale si svolgono i suoi romanzi maggiori. Della contea si trova anche la mappa disegnata dallo stesso Faulker, tanto estesa da far invidia alla “Terra di mezzo” di Tolkien. Faulkner è ritratto in tante occasioni e in età diverse: mentre batte a macchina nel patio, mentre si prepara un caffè, mentre è accanto ad un cavallo, o a Parigi, con la barba, nel viaggio intrapreso nel 1925 per respirare l’aria degli scrittori americani espatriati, ma soprattutto, cosa che poi non fece, per incontrare James Joyce, da lui tanto ammirato. Dopo quel viaggio capì quale doveva essere la sua strada.
Una teca raccoglie alcuni oggetti personali: le pipe, una bottiglia di Jack Daniels e il tabacco “My Mysture” che Faulkner fumava. E’ celeberrima la sua affermazione: “Gli strumenti di cui ho bisogno per il mio lavoro sono carta, tabacco, cibo e un po’ di whiskey”. Faulkner usa la parola “trade”: per lui scrivere era un lavoro manuale, come zappare e coltivare campi o costruire mobili. Le librerie alle pareti che troviamo nella biblioteca al pianterreno sono state costruite dallo stesso Faulkner. Il custode della casa-museo, una volta saputo che sono italiano, mi consegna fiero una scatola da scarpe bianca, marca Steve Madden, con su scritto “Italian Publisher’s Display”. Lo scrigno contiene alcune lettere scambiate tra lo scrittore e il suo editore italiano, Arnoldo Mondadori, foto con intellettuali italiani, tra i quali si riconosce Elio Vittorini, la prima edizione di “Santuario”, illustrata, e la prima di “Scendi Mosè”.
Al primo piano si trovano le eleganti stanze da letto dello scrittore, della moglie e della figlia Jill. Estelle e Jill non furono le sole donne della sua vita. Dell’esistenza del problematico rapporto tra la ventenne scrittrice di Memphis Joan Williams e un Faulkner cinquantenne si trova ampia trattazione in un volume presente negli scaffali nella Square Book, storica libreria della sua Oxford: “William Faulkner e Joan Williams: The Romance of Two Writers”, che ricostruisce i cinque anni della relazione. Di Meta Carpenter, l’amante conosciuta a Hollywood dove Faulkner aveva lavorato come sceneggiatore, invece nessuna traccia.
Visito alla fine la piccola stanza usata negli ultimi anni dallo scrittore come studio dopo una brutta caduta da cavallo: sulle pareti bianche, scritto di suo pugno, il piano di sviluppo giorno per giorno dell’ultimo grande capolavoro, “A Fable”, un romanzo di denuncia contro tutte le guerre. Esco fuori. Il viale di cedri rossi che si allunga oltre il porticato mi fa tornare alla mente il verbo più amato da Faulkner, “to endure”. Resistere, perseverare. Come questi alberi. Il destino degli uomini.
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