Ci sono canzoni popolari che mettono allegria, scaldano i cuori e, a chi ha voglia ed è capace di ballare, «fan spurär i pè» (fanno prudere i piedi) come ai nostri vecchi che, un tempo, calcavano le lignee tavole delle balere («festivàl») che, con i loro tendoni, parevano navi corsare che veleggiavano in oceani di erba medica e «bärbi» (bietole).
Ci sono però anche motivi popolari che, sentirli cantare, «i fan gnir i zgrizór» (pelle d’oca) tanto sono evocativi e commoventi e, per chi ama la nostra terra, addirittura sacri. Chi, ad esempio, parmigiano del sasso, non si mai commosso nell’udire la «Rondanèn’na» cesellata dalla voce dell’indimenticato tenore «’dla Coräle» Tonino Fereoli o la canzone degli scarriolanti? «Ala matén’na bonóra/ prìmma ch'a spónta ‘l sol/ tutt la campagna dòrma ieri ierà/ dòrma ‘l lavoratór/. E cuand ‘l sol al spónta con tant béi rag' d’òr/ e tutt al mond 'l canta ieri ierà/ canta ‘l lavoratór/. E cuand ‘l sol tramonta/ l’é ora d’ ripozär/ tutt i lavor se zmètta. Ierì ierà/ Mo seguitèmma a cantär/». E allora, il pensiero corre a quei lavoratori di ieri che consumavano le loro schiene, le loro braccia e le loro mani trasportando merce pesante come ghiaia, sabbia, ghiaccio e altri detriti con l’ausilio dei loro carri trainati da un cavallo oppure con le loro carriole che solcavano i greti di fiumi e torrenti come il Po, la Parma, il Taro e l’Enza.
Stiamo parlando dell’epopea dei «caretér» o «casonér», degli «scariolant», dei «sabién», dei «giarén» e dei «viturén». Quando a fine anni '50 cominciarono a spuntare in periferia i primi cantieri dando inizio a quella ricostruzione che rosicchiò terra e campi alla campagna che circondava la città, la «rotura», ossia: terra, calcinacci, mattoni di casupole che venivano demolite, erano caricati su carri di legno trainati da un cavallo. Era l’epopea d’oro dei «caretér» che sarebbe durata ancora qualche anno per arrendersi al progresso dei camion e dei Tir. Già, i «caretér», che giravano tutta la città al rumore lento e cadenzato di un carretto dalle grandi ruote lignee trainato da un cavallo il cui zoccolìo era divenuto familiare in molte strade cittadine, specie nei borghi, in quanto l’eco si faceva ancor più forte e marcato. Il carrettiere, come andava a raccattare ghiaia e sabbia nel greto dei fiumi, fu pure un ottimo alleato dei muratori in tempi in cui camion e ribaltabili erano rarissimi e, quei pochi, erano impegnati nei grandi lavori.
Quindi, le nostre strade periferiche, specie nella bella stagione, quando l’edilizia iniziava quel boom destinato a durare negli anni, erano frequentatissime dai carrettieri che facevano la spola più volte al giorno tra il luogo di scarico ed il cantiere. Erano uomini forti, dalle mani callose, dalla voce possente e, tra essi e il loro cavallo, c’era un rapporto del tutto particolare quasi un’intesa sottile per gli altri incomprensibile come nei casi dei vetturini il cui più emblematico esempio parmigiano fu «Ginginélo» con la sua carrozza sempre parcheggiata dinnanzi al Regio, con tanto di lanterne accese, quando, fino agli anni '50, iniziava la stagione lirica. L’uomo grugniva ordini alla sua bestia e il cavallo obbediva accelerando il passo, rallentandolo, fermandosi, svoltando a destra o a sinistra. Per i «caretér», quelle briglie di cuoio, erano il loro volante, e la voce, molte volte, l’acceleratore di quel trabiccolo di legno massiccio colorato di azzurrino o di verde, ma il più delle volte impolverato al punto di non poter distinguere il colore.
La parte terminale del carro era composta da un’asse che si poteva sfilare in modo tale da agevolare lo scarico della merce, mentre una lanternina a carburo o a petrolio, ballonzolando sotto il cassone, alla sera, fungeva da fanalino posteriore ballando come il dentino da latte di un bambino. I carrettieri, che si esprimevano in parmigiano colorito e verace, erano dei veri e propri personaggi con un look del tutto particolare. Gli «over anta», ad esempio, ricorderanno l’ultimo carrettiere parmigiano, il simpaticissimo Giuseppe Chiari, assiduo frequentatore del «Giardinetto» di borgo Santa Chiara che indossava, estate e inverno, una camiciona a scacchi, un fazzolettone attorno al collo e un cappellaccio a larghe tese ingentilito da una piuma di fagiano. Era gente che si alzava alla mattina ad orari antelucani e, a metà mattinata, si concedeva una robusta merenda in qualche osteria che incontrava sul proprio cammino. Coloro che andavano a fare ghiaia nel greto dell’Enza sostavano nelle antiche osterie sulla via Emilia mentre gli altri che erano occupati nel trasporto di materiali nei cantieri cittadini frequentavano le osterie urbane dove non poteva mancare, specie in inverno: «caval pìsst», «pè äd gozén» uova sode, merluzzo fritto, salame e polpette il tutto annaffiato da una bottiglia di bianco o rosso tanto da non perdere energie, mentre il cavallo attendeva pazientemente fuori sbattendo frequentemente gli zoccoli sul selciato e ruminando quel «brancón äd fén» che il carrettiere gli aveva dato prima di varcare la porta dell’osteria. Il passaggio del carrettiere non passava certo inosservato, vuoi per il familiare rumore degli zoccoli del cavallo che per lo strusciare della ruota nell’asfalto. Specie nelle strade periferiche, battute frequentemente dai carrettieri, gli escrementi del cavallo («fiama») venivano raccolti dalle «rezdóre» con tanto di paletta e secchio. Una volta diluita con acqua, la «fiama», veniva poi somministrata al terreno che, diventando fertilissimo, partoriva verdure rigogliose e fiori particolarmente belli. Sbaglierebbe chi pensasse che avessero gli stalli in periferia. Molti di loro, invece, avevano il «garage» in pieno centro. Addirittura un paio di carrettieri lo avevano in strada Nuova accanto alla frequentissima osteria del «Cavallino», altri «dedlà da l’acua» tra quella ragnatela di borghi dai quali provenivano odori «äd sofrìtt», muffa, stantio e di... stalla. Nelle afose giornate estive quando il lavoro era più pesante, non era raro incontrare nelle prime ore del pomeriggio in qualche viale periferico, come sullo Stradone, in viale delle Rimembranze oppure nei paraggi della Cittadella, il carrettiere appollaiato a cassetta del suo carretto sotto un’ombra a schiacciare un pisolino con il cappello sugli occhi, immancabile stecchino in bocca e briglie in mano. Mentre il cavallo, ciondolando la testa a destra e a sinistra, cercava di togliersi di dosso quelle mosche e quei tafani che, unitamente al caldo, lo perseguitavano.
Per onorare le antiche tradizioni del posto e rendere omaggio ai «sabién», e cioè a quei lavoratori che caricavano su carri e barche la sabbia nel Po, a Colorno, alcuni anni fa, nacque una confraternita di persone attaccatissime alla loro terra, alle sue tradizioni antiche e a quei piatti di cui si cibavano i nostri vecchi in determinate ricorrenze in quanto, tutto l’anno, era cadenzato da giornate particolari, ovviamente feste comprese, che prevedevano cibi che accompagnavano la solennità. Dunque, a Colorno, all’ombra dell’aristocratica reggia, è attiva la nobile «Confraternita del Tortél Dóls»: una pattuglia di appassionati di tradizioni e gastronomia locali che ha portato alla ribalta il «tortello dolce». La nascita del «tortél dóls» si fa risalire all’epoca della Duchessa Maria Luigia d’Austria. La tradizione popolare narra che in occasione di particolari ricorrenze, la sovrana, era solita offrire ai barcaioli di Sacca («sabién») un primo piatto battezzato dai rudi uomini del Po, che solcavano le sue acque, «Tortél dóls» per la particolarità del ripieno. La tradizione vuole che questo primo piatto sia preparato nel periodo invernale, in particolare in occasione della cena di magro della vigilia di Natale, l’ultimo dell’anno e la sera prima della festa di «Sant'Antònni dal gozén» (17 gennaio) quando anche alle bestie si dava il fieno migliore e ai cani la zuppa cotta nell’acqua di bollitura dei tortelli. Come gli anolini anche i «tortelli dolci» non prevedono la ricetta, ma tante ricette che ogni famiglia colornese si è ritagliata nel tempo attraverso personalissimi segreti delle «rezdóre» che inseriscono un arcano particolare in quel delizioso miscuglio di robe buone.
Comunque, gli ingredienti basilari di questo piatto dalle reminiscenze austriache sono: pane grattugiato, vino (mosto cotto) e mostarda di pere nobili, mele cotogne e cocomero da mostarda rigorosamente fatta in casa. Ed è a questo punto che salgono alla ribalta i segreti muliebri che aggiungono ad ogni ricetta antichi saperi. Il condimento, nella stragrande maggioranza, è composto da salsa di pomodoro e burro. Per la vigilia di Natale, in alcune famiglie, si condiscono i tortelli con burro fuso e parmigiano. Un’antica usanza colornese vuole che i tortelli, avanzati alla sera della vigilia, venissero fritti e mangiati la mattina di Natale per colazione e, non solo dai «sabién».