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Stringimi forte Una pellicola figlia di un cinema astratto e doloroso

Il diario intimo di una fuga da sé: un film catartico e cicatrizzante

Il diario intimo di una fuga da sé: un film catartico e cicatrizzante

di Filiberto Molossi

08 Febbraio 2022, 15:00

Questo film è una porta che non viene più chiusa a chiave, nella speranza che chi è uscito prima o poi torni. Ma Clarisse lo dice e lo ripete e non si può fare finta di niente: «Non sono io a essere andata via». E allora non resta che giocare a Memory sul letto con le polaroid, ricordi da abbinare là dove ti rimangono solo quelli.


E' un figlio di un cinema astratto e doloroso che ha che fare con l'assenza e con la perdita, «Stringimi forte», il sesto lungometraggio da regista di un attore straordinario, Mathieu Amalric (futuro protagonista, tra le altre cose, del prossimo film di Nanni Moretti), che dietro la macchina da presa fa dell'interiorizzazione il punto di forza di un'estetica privata e personale.
E qui, nel girare il diario intimo di una fuga, gioca sulle connessioni (in)visibili, sui continui rimandi visivi ed emotivi, tra chi resta e chi invece va via, in una distanza che è sempre più sentimentale che fisica: e che segna il confine, labile, dell'affetto tra due mondi fatalmente differenti, ma che non smettono di parlarsi, di riflettersi, di sorprendersi del loro stesso riverbero.
Una donna (Vicky Krieps, intensa e disarmata: è l'attrice lussemburghese de «Il filo nascosto») prende e se ne va, abbandona la famiglia e sparisce, così, per vedere il mare: e in un itinerario puntellato dalle note non concilianti di un pianoforte, mentre scorrono le ciminiere delle fabbriche, distributori deserti e ancora chiusi e spiagge fuori stagione, non arriva da nessuna parte. O forse invece sì.


Come un thriller dell'anima, «Stringimi forte», che, nel depistaggio di vasi sempre e comunque comunicanti, insinua dubbi e rende più fragili, più molli, le certezze, seguendo le tracce sinistre di qualcosa che manca. Amalric abbatte le barriere temporali, mischia e confonde i pezzi del puzzle, riavvolge il nastro e guarda a quello che sarebbe potuto essere: in fuga dal dolore, tra fantasmi e continue ambiguità, si carica sulle spalle la sua protagonista in un viaggio catartico e cicatrizzante dove, attraverso il potere salvifico dell'immaginazione, elabora il lutto. Girando un film sul sopravvivere, certo: ma ancora di più sul (ri)partire. Magari a bordo di una vecchia auto, grande come un carro funebre: che divora i chilometri di una realtà deludente, anzi, peggio, crudele. Che si può, forse si deve, rifiutare: ma solo per imparare ad accettarla.

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