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Comanda ancora il petrolio

Comanda ancora il petrolio

di Aldo Tagliaferro

23 Settembre 2019, 14:29

Ma la situazione - dopo - è diventata ancora più allarmante per l’immediato rialzo dei prezzi conseguente all’attacco e soprattutto per l’incertezza riguardo la durata dello shortage. Dopo una fiammata sui mercati all’inizio della scorsa settimana,  le rassicurazioni giunte da Riad sul ritorno alla normalità in tempi brevi e l’autorizzazione da parte della Casa Bianca all’utilizzo delle riserve strategiche americane per far fronte alla parziale interruzione della produzione saudita, hanno riportato apparentemente la calma. In realtà i timori restano: come è possibile che l’Arabia, il terzo Paese per investimenti in armi, sia così vulnerabile a un attacco? Che certezze abbiamo che non si verifichino altri episodi? E soprattutto, cosa accadrebbe se in un momento così delicato ci fosse un secondo shock, ad esempio qualche disordine in Nigeria come paventano gli analisti di Oxford Economics?

Tutto questo ci porta a un paio di considerazioni. Innanzitutto: c’è da prendere atto che a dispetto delle campagne ambientaliste e di fronte a una lenta transizione verso sistemi alternativi di propulsione, dall’elettrico all’idrogeno fino ai bio-combustibili, la dipendenza mondiale dal petrolio resta fuori discussione. Non solo il mondo consuma tutti i giorni 100,91 milioni di barili (dato certificato dalla Iea, International Energy Agency) ma la sovracapacità produttiva esplosa con la grande crisi economica del 2008 si confronta con consumi non stagnanti bensì in crescita seppure a ritmo più blando: l’Opec stimava a inizio settembre una domanda mondiale in aumento di 1,02 milioni di barili al giorno e la stessa Iea prevedeva +1,1 milioni di barili quest’anno e +1,3 nel 2020. A trainare resta, soprattutto, l’economia cinese nonostante il Dragone stia un po’ tirando il fiato. E’ chiaro che i segnali recessivi che provengono un po’ da tutto il mondo (la locomotiva tedesca in affanno, gli Stati Uniti alle prese con una pesante, e poco chiara,  crisi di liquidità) non aiutano a stabilizzare il prezzo del petrolio in un quadro profondamente mutato dalla crescita esponenziale della produzione americana di oro nero.
In secondo luogo oltre alla storia dalla quale siamo partiti ce n’è una con la S maiuscola che racconta di equilibri perennemente fragili sul perno mediorientale, acuiti dallo scontro tra Washington e Teheran rinfocolato da Trump; tutto ruota intorno all’Iran: accusato dell’attacco alle raffinerie nega il coinvolgimento (ma potrebbe aver appoggiato gli sciiti delle Yemen, altri indiziati), però continua a esportare greggio in Cina infischiandosene delle sanzioni Usa e resta la maggiore fonte di instabilità. Mentre gli alleati russi sono spettatori tutt’altro che disinteressati.

Le conseguenze sui mercati? Prezzi alti del greggio significano depressione della crescita mondiale, riduzione dei consumi, inflazione in rapida risalita, trasporti (e quindi beni) più cari, energia più salata per le imprese, bollette più care per gli utenti. La maggior parte dei Paesi mondiali è importatore netto di petrolio e prezzi di dieci dollari più alti al barile possono incidere dello 0,2% sul Pil e aumentare - nell’Eurozona - l’inflazione dello 0,3%. A maggior ragione in Italia dove il trasporto avviene prevalentemente su gomma e settori come l’agroalimentare (i costi logistici su frutta e verdura pesano fra il 30 e il 35%) pagherebbero un tributo insostenibile. E se i prezzi dell'energia schizzano in una fase recessiva, allora sono davvero dolori. 

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