ECONOMIA
La storia del sistema pensionistico italiano corre in parallelo con la storia della legislazione sociale dell’Italia. Tutto bene nella prima fase della prima repubblica. Fino alla fine degli anni ’60, l’Inps era in attivo, per la semplice ragione che la demografia della popolazione era favorevole (molti giovani e pochi pensionati, con gran parte di pensioni basse), la crescita e l’occupazione erano in aumento, con la progressiva regolarizzazione contributiva dei nuovi occupati. Ma la legge ed il livello delle pensioni, con la loro concreta applicazione, sono sempre stati un fattore di concorrenza elettorale, per cui nel merito (con gli occhi di oggi) ne abbiamo viste di tutti i colori. C’era il ruolo di garante naturale dei pensionati da parte del partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana da sempre al governo, ma anche alcuni partiti alleati laici non scherzavano: si ricordano le promesse preelettorali per un prossimo aumento delle pensioni da parte del segretario del partito socialdemocratico, Tanassi, talmente ripetitivo nei suoi interventi, che sollevavano commenti ironici.
Ad un certo momento venne addirittura fondato il partito dei pensionati, con lo slogan: noi siamo in maggioranza, mettiamoci insieme come partito, non potremo non vincere, con tutte le conseguenze facilmente immaginabili. Il partito dei pensionati non decollò mai, perché - venne spiegato dagli esperti - nessuno socialmente vuole identificarsi come pensionato. Identificarsi una vita attiva (anche se improbabile) prevale anche sugli egoismi individuali di breve termine.
La storia del sistema pensionistico italiano ha visto ben altro. Dalle pensioni baby (per le donne dopo 15 anni 6 mesi e un giorno di lavoro), a quelle anticipate rispetto alla scadenza classica dei 60 anni per categorie previlegiate (peraltro molto diffuse). Ad un certo momento ci fu pure la polemica sull’elargizione delle pensioni di invalidità in determinate regioni d’Italia in contrapposizione alla cassa integrazione nelle regioni più industrializzate.
Per un lungo periodo della nostra storia (fino all’inizio degli anni ’80), il rapporto debito/Pil era basso (ben al di sotto del 50%). Il disavanzo pubblico veniva coperto stampando carta moneta (inflazione al 20% inizio anni ’80), e con l’aumento dei contributi pensionistici da parte delle imprese.
Poi nel 1981 tutto è cambiato. L’inflazione venne unanimemente considerata troppo elevata (ovunque nel mondo, a partire dagli Usa), e venne avviata una rigorosa politica internazionale di aumento dei tassi d’interesse, ben superiori al tasso d’inflazione.
Conseguenza: il tasso d’inflazione venne abbattuto (anche in Italia, seppure con ritardo rispetto agli altri paesi avanzati, perché nei nostri meccanismi contrattuali erano incorporate indicizzazioni rispetto all’inflazione), e dopo un po' anche i tassi d’interesse cominciarono a scendere. Ma, e qui ci sta un grosso ma: nel frattempo il rapporto debito/Pil era paurosamente aumentato, introducendo il problema della sua sostenibilità a lungo termine. Un dibattito che pervade il sottofondo della politica economica italiana da 40 anni.
E in questi 40 anni, si è preso atto - progressivamente - che il sistema previdenziale nazionale rappresenta un problema per la nostra spesa pubblica perché non è autosufficiente, quando siano considerate le spese previdenziali di natura assistenziale. Secondo, perché il nostro sistema è contributivo (e questo sta bene perché ognuno riceve indietro quanto ha versato durante il suo percorso lavorativo), ma è redistributivo, cioè le pensioni di oggi vengono pagati con i contributi incassati oggi. E questo ovviamente solleva problemi di sostenibilità nel breve termine, che viene risolto in disavanzo.
La prima riforma del sistema pensionistico, a metà degli anni ’90 (la Riforma Dini) che si pensava definitiva, conteneva al suo interno un errore “fatale”: quello di immaginare per il futuro una dinamica dell’economia del 3% (almeno), che avrebbe apportato nel futuro un aumento di contributi pensionistici altrettanto consistenti.
Negli ultimi 25 anni l’economia ha proceduto con un passo ben più modesto, distante dal presunto 3%, ed i problemi per la copertura delle pensioni sono esplosi. Con senso di responsabilità i governi sono intervenuti (a partire dalla riforma Fornero) per tamponare la situazione, ma tra tante polemiche e contrapposizioni. Come è sempre stato: le pensioni sono materia elettorale!
Oggi, polemiche elettorali a parte, si è tutti d’accordo che con il calo demografico il problema delle pensioni non può che aggravarsi. Che non si può non alzare (per quei lavori che lo consentano) l’età effettiva di pensionamento, visto che i 67 anni previsti (per gran parte dei neopensionati) sono soltanto teorici. E che per mantenere una ragionevole flessibilità in uscita (per rispettare i progetti di vita di ciascuno), è necessario un sostanzioso intervento della previdenza complementare, per integrare i livelli della pensione pubblica che dovranno riflettere sempre di più il criterio dei contributi effettivamente versati. Il reddito “desiderato” durante il periodo della pensione sarà sempre meno una certezza garantita dallo stato, sarà piuttosto il risultato di una pianificazione di risparmio durante tutta la propria vita lavorativa.
Augusto Schianchi
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