ECONOMIA
Il 54% dei consumatori italiani è disposto a cambiare marca in favore di una che ha una confezione più sostenibile e il 40% prevede di aumentare l’acquisto di prodotti con confezioni a basso impatto ambientale. È quanto emerge dall’ultimo aggiornamento dell’Osservatorio packaging del largo consumo 2024 curato da Nomisma. Un elemento chiave in questa trasformazione è rappresentato dal packaging dei prodotti, la cui sostenibilità fa propendere all’acquisto. Ma quali sono, secondo gli italiani, le caratteristiche che rendono un pack sostenibile? E quali materiali vengono percepiti come più ecologici? Per sei italiani su dieci, l’assenza di over pack e la completa riciclabilità sono i due aspetti più importanti per una confezione rispettosa dell’ambiente. Riguardo ai materiali, nel settore degli alimenti confezionati a lunga conservazione (come conserve di legumi e passate di pomodoro), il vetro è il materiale percepito come più sostenibile, mentre, nel segmento bevande, dal latte ai succhi di frutta, il Tetra Pak si posiziona ancora una volta in testa alle preferenze, scelto da otto italiani su dieci.
La normativa
Di recente il Consiglio dell’Ue e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo provvisorio sulla proposta di regolamento sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio che dovranno approvare formalmente. Vengono confermati gli obiettivi ambiziosi proposti dalla Commissione Ue di riduzione dei rifiuti al 2030, 2035 e 2040 e, dal 2030, i divieti di alcuni formati di imballaggi in plastica monouso, così come i target sul riuso con alcune esenzioni (richieste soprattutto dall’Italia, unico Paese a votare contro il Consiglio Ue). L’accordo prevede restrizioni sull’uso di Pfas (le cosiddette «sostanze chimiche per sempre») negli imballaggi a contatto con gli alimenti e fissa, inoltre, obiettivi di riduzione dei rifiuti da imballaggio (5% entro il 2030, 10% entro il 2035 e 15% entro il 2040, rispetto alle quantità del 2018). Non solo. Impone ai Paesi dell’Ue di ridurre, in particolare, la quantità di rifiuti di imballaggio in plastica, a cominciare dal divieto dal 1° gennaio 2030 di alcuni formati di imballaggi in plastica monouso per frutta e verdura fresca sotto 1,5 chilogrammi (ma solo quella non trasformata) o per alimenti e bevande riempiti e consumati in bar e ristoranti, ma anche per porzioni individuali (ad esempio condimenti, salse, panna, zucchero), confezioni in miniatura utilizzare per i prodotti da toilette negli alberghi e la pellicola termoretraibile per le valigie negli aeroporti. Saranno, inoltre, vietate le borse di plastica molto leggere (sotto i 15 micron), a meno che non siano necessarie per motivi igienici o fornite come imballaggio primario per alimenti sfusi per aiutare a prevenire gli sprechi alimentari. Non sono vietati gli imballaggi per il take away, quelli di carta monouso nei locali con una componente in plastica inferiore al 5% del peso totale e neppure l’insalata lavata e tagliata pronta in busta se, e questa è una esenzione in realtà già prevista dalla Commissione, «è dimostrato il bisogno di evitare spreco di acqua, di freschezza» o esistono «rischi microbiologici e di ossidazione. Esentati anche gli imballaggi compostabili se raccolti e smaltiti, così come richiesto dall’Italia e quelli compositi, in plastica e carta.
Le nuove frontiere
Aziende e startup sono quindi stimolate nella ricerca di soluzioni innovative per il confezionamento. Tra le proposte più avvincenti sviluppate finora ci sono, ad esempio, gli imballaggi a base di alghe, che sono biodegradabili; ci sono poi quelli idrosolubili, che si dissolvono a contatto con l’acqua; ci sono gli imballaggi stampati in 3D che si sviluppano attorno al prodotto da confezionare utilizzando la quantità di materiale minima necessaria o i packaging a base di cellulosa ricavabile da diversi elementi vegetali o quelli a base di carta di semi che si possono piantare nella terra e quelli che utilizzano come base il micelio dei funghi. Tra le sfide maggiori c’è quella che riguarda i packaging del settore alimentare che devono garantire al prodotto le caratteristiche di conservabilità come la freschezza e la fragranza, oltre che la sicurezza alimentare per quanto riguarda, per esempio, la contaminazione.
La ricerca del Cipak di Parma
Il Cipack (Centro dipartimentale per il packaging) è un’estensione dell’Università per quanto riguarda il trasferimento tecnologico. Svolge, infatti, un’attività di consulenza nei confronti del territorio, un contesto in cui l’industria del packaging è molto sviluppata, compresa la produzione di impianti per il confezionamento così come lo studio dei materiali. «Oggi si pone al centro la salvaguardia dell’ambiente, ma come premessa doverosa va detto che non esiste una tecnologia buona e una cattiva - spiega Roberto Montanari, direttore del Cipack -. È semplicemente un’estensione dell’uomo, che ne amplifica le potenzialità. Se viene utilizzata male si creano danni e sono molti di più se la tecnologia è performante. Faccio questa premessa, a proposito delle nuove frontiere del packaging in un’ottica green, perché la plastica è un materiale estremamente performante. Grazie alla plastica trasportiamo cibo dall’altro capo del pianeta, perché è talmente resistente alle aggressioni esterne che in altro modo non saremmo mai riusciti. Il vero nocciolo della questione è il modo con cui viene utilizzata la plastica e più in generale la tecnologia, che può essere buono o sbagliato. Basterebbe un uso corretto di questo materiale. Tornando alle nuove frontiere del packaging, le novità riguardano ad esempio, la riduzione delle quantità. Se analizziamo la grammatura delle bottiglie in pet questa è andata via via diminuendo, per utilizzare al meglio la risorsa. Poi abbiamo packaging che risultano essere funzionalizzati, ovvero attivi, che hanno la capacità di rilasciare e assorbire sostanze durante il periodo di contatto con il prodotto. Derivano, ad esempio, da scarti dell’industria agroalimentare».
Il futuro? «Oggi, la tendenza a riciclare il più possibile porta a ricercare un packaging monomateriale - evidenzia Montanari -. Ma come si fa a fornire proprietà importanti a livello meccanico, come barriere all’ossigeno all’umidità, con un solo materiale? Ecco che entra in gioco il tema del coating, sottilissimi strati di altro materiale che permettono ai materiali destinati al confezionamento di prolungare la shelf life del prodotto preservandone la qualità, pur in un packaging monomateriale. In generale, la modalità migliore è un corretto utilizzo dei materiali in funzione del prodotto che contengono. Utilizzare un packaging che ha una vita lunga per un prodotto altamente deperibile è un errore grossolano. L’insalata di quarta gamma, ad esempio, non può rimanere sugli scaffali per più di alcune giornate e quindi è più ecologico utilizzare un packaging meno performante in termini di longevità. Oggi questa attenzione non è ancora così forte, si valuta perlopiù il lato economico».
«In generale l’obiettivo è sostituire i materiali cosiddetti non sostenibili quindi quelli classici tradizionali con altri soprattutto basati sull’impiego di carta o di biopolimeri, che possono essere biodegradabili o compostabili e dunque a minor impatto ambientale - conferma Antonella Cavazza, vice direttore del Cipack -. Nel momento in cui si converte il materiale si osserva una perdita di performance in termini di protezione del prodotto, a cui tuttavia non vogliamo rinunciare. La ricerca si sta dunque concentrando su materiali bio che possano avere le stesse performance di quelli tradizionali. Non è semplice, se pensiamo al trasporto di prodotti alimentari freschi, le confezioni sono in sottovuoto o in atmosfera modificata e per avere queste due tipologie di packaging servono materiali plastici. Ad oggi non è possibile ottenere un sottovuoto con materiale bio. Anziché accettare di dimezzare i tempi di scadenza l’obiettivo oggi è individuare un sistema per modificare il materiale e renderlo abile a conservare meglio. La carta, ad esempio, viene percepita come materiale naturale e stiamo lavorando su rivestimenti sempre più performanti per renderla impermeabile ed aumentarne anche la resistenza meccanica».
«Negli altri Paesi - continua - sta prendendo piede il riuso, ovvero la preferenza a utilizzare un materiale lavabile e riutilizzabile anziché le confezioni monouso, ma questo va a impattare sui costi perché movimentare i vuoti per essere riutilizzati ha un peso a livello economico e ambientale impattante. Per cercare di contenere i costi eliminando la plastica spesso i materiali vengono importati dalla Cina, come i cucchiaini di legno che hanno un odore fastidioso, una superficie rugosa piena di schegge, aspetti anti igienici che incidono sulla qualità. Si pensa che anche il biopolimero o in generali i materiali sostenibili non provochino alcun impatto sulla salute. In realtà, dalle analisi sulle possibili cessioni di contaminanti da parte di questi materiali, emerge che vengono utilizzati additivi per migliorare le performance. Quindi non è detto che green sia anche safe, un aspetto che il consumatore non riesce a percepire. E spesso anche l’approccio politico a queste tematiche, non aiuta».
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