ECONOMIA
La previdenza complementare in Italia fatica ancora a decollare. Secondo i dati della Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip), solo il 38,3% dei lavoratori ha aderito a un fondo pensione e appena il 27,6% versa regolarmente il Tfr o contributi aggiuntivi. La causa qual è? Una combinazione di diffidenza, vantaggi fiscali meno convenienti per alcuni lavoratori, scarsa educazione finanziaria e percezione di rendimenti bassi o instabili. Innanzitutto, è bassa la percentuale di iscritti ai fondi pensione nelle piccole aziende. L’abolizione del Fondo di Garanzia avvenuta con la manovra del 2007, che consentiva alle aziende di ottenere liquidità a fronte del Tfr conferito ai fondi, ha rappresentato un freno. «Gli iscritti ai fondi pensione sotto i 20 dipendenti non arrivano all’8%, contro percentuali fra l’80 e il 90% nelle grandi aziende».
I numeri del secondo pilastro previdenziale
Il welfare contrattuale, ovvero fondi pensione negoziali e preesistenti, Casse Privatizzate e Fondazioni di origine Bancaria, nel 2024 è a quota 315,93 miliardi. Il welfare privato rappresentato invece da fondi pensione aperti, PIP e assicurazioni, raggiunge i 714,22 miliardi. Il totale nel 2024 raggiunge i 1030 miliardi di euro, che significa il 47% del Pil. Nel 2007, la percentuale era sensibilmente più bassa, al 25%.
Considerando però solo i fondi pensione, pur in leggera crescita, la percentuale rispetto al Pil scende all’11,7%. Facndo un confronto con gli altri Paesi, i fondi italiani restano al 15esimo posto per patrimonio totale fra i 38 paesi Ocse, e scendono al 17ettesimo allargando il confronto anche ai paesi non Ocse. Il confronto con i Paesi del nord Europa è impietoso: Danimarca, 204% del Pil, Olanda (150%) e così via. Nella classifica mondiale dei primi 300 fondi pensione per patrimonio il primo soggetto italiano è l’Enpam al 196mo posto con 28,5 miliardi e non è neppure un fondo ma una Cassa di previdenza di primo pilastro dei medici.
Intanto, in Italia, la popolazione continua a invecchiare e gli over 65 supereranno il 35% entro il 2050 (fonte Itinerari Previdenziali). Questo fenomeno già di suo mette a rischio la tenuta del sistema, che al momento è ancora sostenibile. In futuro però sempre meno giovani verseranno i contributi per pagare le pensioni di un numero crescente di anziani. Senza contare che con l’allungarsi della speranza di vita , aumenteranno anche le esigenze legate alla salutequindi ci sarà bisogno di spendere di più per le cure. Il solo assegno ordinario potrebbe non bastare, anche perché diminuirà con il metodo contributivo, meno generoso del vecchio retributivo. Da qui il bisogno di intervenire al più presto.
“C'è un aspetto che va subito messo in evidenza – premette Paolo Zani, esperto di previdenza, autore del blog www.tuttoprevidenza.it - nelle tante conferenze che ho tenuto in materia previdenziale non ho riscontrato una grande partecipazione sul tema dei fondi pensione e soprattutto ho riscontrato sempre una scarsa presenza di giovani. E' un fenomeno culturale, purtroppo. I giovani non hanno oggi la sensibilità di pensare a quello che sarà il loro futuro da anziani. Nel sistema attuale si è abituati a considerare piuttosto le varie forme di assistenzialismo dello Stato, ma nel frattempo il contesto è cambiato. Occorre attrezzarsi per il futuro, anche se appare ancora lontano. Pensare a un secondo pilastro previdenziale è una scelta obbligata. Già il sistema contributivo è penalizzante circa del 15-20% rispetto al sistema retributivo, a fronte di un conto della vita in costante aumento, diventa fondamentale integrare quelle che saranno le pensioni di domani. Non è più un'opzione, ma una necessità fondamentale. Lavorando 30-35 anni nella stessa azienda ha permesso fino a oggi di contare su un Tfr consistente, ora non è più così. Le giovani generazioni hanno vite lavorative spezzettate, con tanti Tfr e alla fine non si ritrovano niente in mano. Nel fondo di previdenza complementare il Tfr si accumula e poi si ritrova quando serve”.
Come si può aiutare questo cambio di passo? “Finora non si è spinto abbastanza verso la scelta di aderire ai fondi – fa notare Zani -. Lo Stato deve intervenire proponendo incentivi, ma resta fondamentale, come dicevo, educare i giovani, la maggior parte di loro non si rende conto di ciò che sta accadendo, serve tanta formazione. Pensiamo alla sanità, ad esempio. Stiamo andando verso una privatizzazione sempre maggiore, tant'è che i fondi più significativi come Cometa o Fonchim iniziano ad avere la loro linea assicurativa per la sanità.
Servirebbe una riforma coraggiosa di tutto il sistema pensionistico, ma non credo che a due anni dalla scadenza l'esecutivo in carica abbia intenzioni di metterci mano. Dovremo aspettare ancora”.
Le tappe dei fondi pensione
Il primo tentativo di introdurli risale al 1978 dall’allora ministro del Lavoro Vincenzo Scotti; dal 1984 seguirono altre proposte, tutte rimaste lettera morta. Il 21 aprile 1993 viene approvato il decreto legislativo. n.124, «disciplina delle forme pensionistiche complementari». Finalmente, dopo 15 anni di discussioni e con enorme ritardo rispetto ai principali Paesi, anche l’Italia aveva una legge. Nel contempo, però, mettendo insieme alcuni articoli del Codice civile con altre norme fiscali, erano stati costituiti circa mille fondi pensione cui avevano aderito 1,65 milioni di lavoratori di multinazionali straniere e italiane, banche e assicurazioni con un patrimonio di oltre 36 mila miliardi di vecchie lire e flussi annui di 6mila miliardi. Per motivi di gettito, l'esecutivo di allora introduce un’imposta preliminare del 15% su tutti i contributi versati ai fondi che verrà recuperata quando si andrà in pensione, magari dopo 40 anni. Un vero e proprio sabotaggio tanto che blocca tutto, perfino i versamenti ai fondi esistenti. Bisognerà aspettare la riforma Dini, legge 335/1995, per modificare e creare le premesse per la ripartenza. Nel1996 vengono varati i due decreti che regolano gli investimenti e il funzionamento; nascono così i primi fondi negoziali e aperti di nuova generazione che si affiancano ai preesistenti e al terzo pilastro:le polizze da 2,5 milioni di lire all'anno con agevolazione fiscale. Ne Duemila il ministro Vincenzo Visco cambia ancora le regole, elimina il terzo pilastro e aumenta la tassazione. Si deve aspettare il 2005 perché tutto torni al posto giusto. Nel 2007 il successivo governo Prodi con Cesare Damiano ministro del Lavoro, elimina il fondo di garanzia per le micro e pmi che conferiscono il Tfr ai fondi, divide le aziende in meno di 50 e più di 50 dipendenti, obbliga i lavoratori di queste ultime che non versano il Tfr ai fondi, a versarlo alla nuova gestione Inps. Nel 2015 il governo Renzi da un lato aumenta la tassazione, dall'11% all’11,5% e poi al 20% (26% per le Casse dei liberi professionisti) e dall’altro inventa i Pir ai quali generosamente azzera le imposte sui rendimenti per tutto il tempo in cui si resta investiti: anche a vita. Dopo 20 anni circa: lo scorso anno gli iscritti ii Pip erano 9.707.350, ma i versanti effettivi sono stati 7.016.210; li iscritti ai fondi sanitari per i quali mancano legge e vigilanza, sono oltre 17 milioni; le adesioni ai fondi delle aziende medie e grandi che possono privarsi del Tfr si aggira tra il 70/80% mentre nelle piccole imprese dopo la cancellazione del fondo di garanzia siamo intorno all’8%. Dal 2007 al 2024 su più di 445 miliardi solo 105 sono confluiti nei fondi mentre altri 105 sono andati al fondo Inps in spesa corrente e il resto è rimasto alle piccole imprese.
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