La Rete non è più una giungla, e questa è una buona notizia per tutti. I nostri diritti nello spazio virtuale, inizialmente sottovalutati e ignorati, ricevono da tempo adeguate tutele. Il diritto dell’internet si è evoluto grazie a normative nazionali e sovranazionali, storiche decisioni di corti e tribunali e nuovi codici di condotta. Nel web, il bilanciamento tra la libertà d’espressione e la difesa di altri diritti ugualmente meritevoli di tutela, si pensi alla dignità umana, alla privacy, all’onore, alla reputazione, all’immagine, rimane sempre precario e in balìa delle situazioni, ma i legislatori e i giudici si impegnano a realizzarlo, con leggi e sentenze. L’equilibrio tra diritti rimane la stella polare della pacifica convivenza sociale e della stabilità delle istituzioni democratiche. Tanto più nell’oceano virtuale.
La pandemia ha catapultato in Rete ampie porzioni di popolazione mondiale che pensavano di poter fare a meno dell’ambiente digitale. Rispetto all’epoca pre-Covid, oggi sono molto più numerose le persone che usano la Rete per comunicare, scambiare informazioni, acquistare beni e servizi, pagare bollette, compiere operazioni bancarie, risolvere pratiche burocratiche con uffici pubblici, ma è anche aumentato enormemente il potere di chi gestisce le piattaforme web. L’incremento esponenziale degli usi di Internet ha infatti accresciuto i profitti delle multinazionali che mettono a disposizione degli utenti le “autostrade virtuali” e sta redistribuendo la ricchezza su base planetaria, contribuendo a ridefinire i rapporti di forza tra Stati e tra poteri.
L’overdose tecnologica indotta dalla pandemia richiama, dunque, l’esigenza di puntellare le regole che disciplinano la circolazione dei contenuti in Rete e l’esercizio dei diritti nel mondo virtuale, ave ndo come orizzonte cui tendere il pieno compimento della cittadinanza digitale. In particolare i social hanno sì contribuito all’arricchimento dei circuiti informativi, alla rigenerazione costante del delicato equilibrio tra emozioni e cognizioni, ma hanno altresì amplificato la portata diffusiva di notizie di dubbia autenticità e sono stati utilizzati spesso come sfogatoio di scomposte pulsioni individuali, come detonatore di laceranti conflitti.
Vanno irrobustite le garanzie giuridiche ma occorre coltivare con determinazione anche il filone dell’autodisciplina degli utenti, sia come singoli sia come appartenenti a categorie professionali. Persone, istituzioni, imprese, associazioni, categorie professionali sono dunque chiamate a uno sforzo di autoregolamentazione per combattere da una parte il “tecnoscetticismo”, inteso come ritrosia all’abbandono incondizionato alla dimensione virtuale delle comunicazioni, dall’altra le “tecnodipendenze” generate da un individualismo iperconnesso e spesso autoreferenziale.
I primi difensori dei nostri diritti in Rete siamo noi stessi e ogni categoria professionale è chiamata a definire, nell’uso dei social, un punto di equilibrio virtuoso tra la insopprimibile libertà di manifestazione del pensiero e il dovere inderogabile del rispetto della personalità altrui.
Tra le categorie più esposte ai pericoli di un uso distorto dei social figura quella dei magistrati. Proprio due settimane fa l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione ha diffuso un questionario intitolato «Le attività secondarie e l’uso dei social media da parte dei magistrati». Nel documento si ribadisce l’esistenza di limiti riguardo alle espressioni, esternazioni o pubblicazioni di magistrati sui social, in particolare quelle «che hanno legami con i contenuti dei procedimenti trattati nell’ufficio o con le persone in essi coinvolti». Tali condotte possono costituire illecito disciplinare. Esiste anche il divieto per le toghe di «eccedere nell’esibizione di frammenti di vita privata», e di attivare «amicizie» o «connessioni» virtuali che possano avere rilevanza politica o investire temi di interesse generale.
Fu proprio il Presidente della Repubblica, che è anche Presidente del Consiglio superiore della magistratura, in occasione dell’inaugurazione dei corsi di formazione della Scuola superiore della magistratura per l’anno 2019, a evidenziare come «l’osservanza della regola della sobrietà dei comportamenti impone un rigoroso self-restraint nell’uso dei social network e delle mailing list, sul rilievo che tali strumenti, ove non amministrati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l’azione dei magistrati e potrebbero offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria».
L’ordine giudiziario deve godere di un credito di equilibrio, serietà, compostezza e riserbo nei confronti della pubblica opinione e ciascun magistrato è chiamato ad applicare canoni di continenza espressiva e compostezza di comportamenti anche quando utilizza i propri profili social.
Nel marzo 2021 il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa adottò una «Delibera sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi», che impone un uso sobrio e discreto di quei mezzi da parte dei magistrati dei Tar e del Consiglio di stato e riconosce altresì il diritto-dovere di questi ultimi di «ricevere una formazione specifica relativa ai vantaggi e ai rischi dell’utilizzo dei social network».
Anche altre categorie, dai giornalisti ai commercialisti ed esperti contabili, dagli avvocati ai medici, dai docenti ai dipendenti pubblici, si sono dotati negli anni di codici di autoregolamentazione su un uso dei social prudente, accorto e rispettoso dei diritti di tutti. È la strada maestra per capitalizzare la ricchezza della Rete, realizzando al tempo stesso, nelle piazze virtuali, un salutare e maturo equilibrio tra libertà e responsabilità.
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