C'è un curioso parallelismo che caratterizza il governo Draghi. Le due forze politiche che formarono nel 2018-'19 la maggioranza gialloverde e che oggi si ritrovano insieme (ma con Pd, Forza Italia, centristi e la sinistra di Articolo uno), cioè il M5s e la Lega, sembrano perseguire una tattica “di lotta e di governo”. Questa politica prevede che ognuno di questi due partiti abbia un “buttafuori”, cioè un leader che cerca il consenso facendo un po' di opposizione o alzando i toni (è capitato a Conte sulla giustizia e a Salvini sul green pass, in entrambi i casi con risultati modesti) e un “buttadentro”, cioè un personaggio di primo piano (Di Maio e Giorgetti) che rappresenta l'ala governista e tenta ogni giorno di rafforzare Draghi e sostenere un approccio “riformista” e gradualista, senza strappi e senza cedimenti alle piazze o alle tentazioni estremiste.
Non è un caso che i due “buttafuori” siano i capi dei partiti: Conte si è fatto paladino dei “duri e puri” perché vuole tenere dentro il M5s coloro i quali si sentono delusi dal governo Draghi; lo stesso Conte non fa nulla per spegnere le nostalgie del governo precedente (abbastanza diffuse nei gruppi parlamentari pentastellati, soprattutto in quello del Senato) e per prendere le distanze dal “travaglismo”, cioè dall'atteggiamento di chi vede nell'esecutivo in carica più difetti che pregi, rimpiangendo quello giallorosa. Se Conte deve tenere dentro tutti, pur di salvare almeno il 16% dei voti che ancora è attribuito dai sondaggi al M5s (la metà rispetto alle politiche 2018), Salvini ha la necessità di rispondere colpo su colpo all'offensiva che gli arriva dalla destra estrema neomissina della Meloni.
Su vaccinazioni e green pass Fratelli d'Italia ha sposato la linea più radicale, quella delle piazze; la Lega può inseguire su questo terreno, ma senza uscire dal recinto della maggioranza Draghi. La Lega, che nel 2018 era al 17%, ma alle europee era al 34%, è oggi ridiscesa al 20% dei voti (nei sondaggi), al secondo posto dietro FdI.
La Meloni veleggia, anche grazie all'apporto della minoranza scettica o contraria a vaccini e green pass, mentre Salvini annaspa, cercando di rilanciare sull'immigrazione e provando ad intestarsi ogni piccola concessione che gli fa il governo (il capo del Carroccio ha voluto dare l'impressione di aver quasi vinto, sulla questione del green pass).
La realtà è che nell’esecutivo la linea che prevale sempre - con qualche opportuna mediazione - è solo quella di Draghi: pentastellati e leghisti, ormai, l'hanno capito e sperimentato a proprie spese. Qualcuno dice che Draghi riceve un aiuto non di poco conto dai due “buttadentro”, cioè da Di Maio e Giorgetti, che vengono etichettati dai detrattori come “governisti ad ogni costo”, ma che, in realtà, hanno compreso che in questa fase politica l'unica cosa intelligente e costruttiva da fare è confrontarsi sui temi senza pregiudizi e bandierine di partito, provando a trovare sintesi che vadano bene per il Paese. Poi, certo, ci sono anche posizioni politiche non tanto in linea con i “buttafuori”: Di Maio teme che Conte acquisisca troppo potere nel rinato M5s e che il desiderio dell'ex premier di guadagnare voti passi per l'uscita dalla maggioranza o per una tattica più di lotta che di governo; Giorgetti - che vorrebbe traghettare la Lega verso l'approdo nel Partito popolare europeo insieme a Forza Italia per darle un profilo più spendibile nel 2023, quando si voterà e verosimilmente la destra andrà al governo e dovrà confrontarsi con l'Ue su temi delicati - è molto spesso più vicino alle posizioni di Draghi che a quelle del suo leader.
Ci si può domandare fino a che punto questa bipolarità fra “buttafuori” e “buttadentro” rispecchi una reale contrapposizione che spacca M5s e Lega. Nel caso del partito di Salvini ci sono differenze di opinione - per esempio i presidenti di regione sono di solito più moderati e vicini alla linea Giorgetti - ma tutti sanno che è stato il capo del partito a portarlo alle europee al 34% e che senza di lui il Carroccio arriverebbe sì e no al 10-12%; in sintesi, non c'è un gioco delle parti, ma un'azione su più fronti.
Diversa la situazione nel M5s, dove invece la spaccatura c'è ma non è personale: Di Maio non vuole il posto di Conte, ma il movimento ha trovato una sintesi nel nuovo statuto più per necessità che per altro. Fra le idealità degli anni d'oro e il pragmatismo dell'ultimo biennio c'è un abisso: nei gruppi parlamentari questa differenza si avverte e provoca sofferenze (per esempio sulla riforma della giustizia). Alla fine, però, anche nei Cinque stelle ha la meglio l'esigenza di non strappare: “buttafuori” e “buttadentro” restano comunque insieme per cercare di ricucire una tela - quella pentastellata - lacerata da mesi di contrapposizioni.
Nel frattempo, il governo procede, con Draghi sempre più saldo al comando.
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