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Un segnale importante nei confronti la Cina

Un segnale importante nei confronti la Cina

di Marco Ziliotti

17 Giugno 2021, 08:55

Quattro anni fa, all’esordio dell’amministrazione Trump, il documento conclusivo del  G7 di Biarritz non conteneva alcuna menzione della Repubblica popolare Cinese; si può invece a ragione affermare che proprio la Cina, convitato di pietra, sia stata la protagonista del recente summit in Cornovaglia. Seppure da posizioni  di partenza differenziate (Biden all’avanguardia quanto ad interventismo, Merkel – e Draghi – più pragmaticamente orientati a gradualità), Usa, Canada, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Unione Europea, insieme agli invitati d’onore (non a caso “vicini di casa” della Cina) India, Corea del Sud e Australia, hanno concordemente convenuto su una strategia di sostanziale contenimento delle politiche espansive cinesi, di cui la Nuova Via della Seta è l’esempio più noto a noi europei. Si tratta di un segnale importante, niente affatto scontato fino a pochi mesi fa, dal duplice contenuto. Anzitutto, si conviene sul fatto che la “questione cinese” rappresenti un problema geopolitico prima ancora che economico, perché coinvolge anche diritti umani, diritti sociali e politiche ambientali. Quindi, risulta insufficiente, ed anzi controproducente, immaginare che i rapporti con la Cina possano essere delegati al «laissez faire» dei mercati.

In secondo luogo, con una vera e propria inversione ad U rispetto alla precedente amministrazione statunitense, risulta abbandonato il metodo di gestione bilaterale dei rapporti internazionali. Perfino la maggiore potenza economica e militare – gli Usa –, quindi a fortiori il nostro Paese, per avere voce in un mondo multipolare, devono muoversi “in gruppo” (anzitutto in ambito Ue).
Ma come agire efficacemente nei confronti della Cina? In ambito economico, una rilevante leva di negoziazione continua a provenire dalla classificazione di “economia non di mercato” che la Wto (Organizzazione mondiale del commercio) riserva al sistema cinese; ciò legittima l’utilizzo di specifiche procedure difensive (dazi o altre penalità) nei confronti delle esportazioni cinesi; ove le condizioni di vendita violino le corrette regole concorrenziali (quali le pratiche di dumping, cioè offerte “sottocosto” finanziate da sussidi).

Se ci si chiede se, a tutt’oggi, sia corretto continuare a definire “non di mercato” l’economia cinese, i dati messi a disposizione dalla Cina stessa risultano scarsi e di dubbia trasparenza; e già questo fa propendere per una risposta affermativa: uno dei principali presupposti per il corretto e trasparente funzionamento dei mercati è proprio la libera circolazione delle informazioni.
Comunque, tutti gli studi disponibili (in particolare forniti dall’Ocse), anche i più recenti, concordano che il sistema cinese rimane alle prese con un grave circolo vizioso, che parte dal sistema finanziario. Le banche cinesi troppo spesso, soprattutto nei confronti delle Soe (le ancora numerosissime imprese di proprietà statale), erogano il credito non in base alla loro profittabilità, ma al potere negoziale “politico”. Venendo meno la selezione sulla base della efficienza, l’obiettivo delle imprese diventa la crescita dimensionale fine a se stessa, posto che più si è grandi, maggiore diviene appunto il potere negoziale presso la nomenklatura centrale ed, a maggior ragione, locale.

L’effetto è che molti settori della economia cinese (in particolare quelli ritenuti politicamente strategici, in quanto cruciali fornitori nelle catene del valore internazionale; acciaio, alluminio, semiconduttori, pannelli solari, ecc.) risultano abbondantemente finanziati da veri e propri “sussidi di stato”. Nel suo complesso, il sistema ne risulta artificiosamente gonfiato, con eccessi di capacità produttiva che, anziché essere mitigati da corrette pratiche di contenimento dei costi, vengono scaricati appunto sull’export, con pratiche di dumping.

Le imprese non devono rendere conto delle eventuali perdite agli azionisti né alle banche creditrici; queste ultime, supportate da autorità monetarie tutt’altro che indipendenti, non avvertono nessuna urgenza di svalutare i crediti di difficile realizzo. Il sistema tiene grazie agli elevati tassi di crescita complessiva ma, oltre al persistente rischio di scoppio della bolla, esso genera evidenti effetti distorsivi sul commercio internazionale.

Tornando alla domanda originaria: allora come agire? L’idea semplicistica del “muro”, cioè della chiusura autarchica rispetto agli scambi commerciali, sarebbe per tutti una cura peggiore del male. Se c’è una lezione che la pandemia sta drammaticamente impartendo, è che in un mondo ineluttabilmente (ed auspicabilmente) sempre più interconnesso, la cooperazione non è più una opzione, ma l’unica via praticabile. Con tale finalità, un equilibrato ma deciso mix di incentivi ed eventuali sanzioni, supportato da una alleanza internazionale ampia e coesa, può condurre la Cina verso pratiche più trasparenti e realmente competitive, che rappresentano la via migliore allo sviluppo, anzitutto dell’economia cinese e della sua società.

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