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Israele e Palestina: restano solo i morti

Israele  e Palestina: restano  solo i morti

di Paolo Ferrandi

15 Maggio 2021, 09:09

Ieri Vox un sito statunitense di giornalismo esplicativo – meno attento alla cronaca spicciola e più alle ragioni per cui le cose accadono – dedicava a quel che sta succedendo in Israele, Cisgiordania e Gaza un titolo brevissimo e però azzeccato: «Doom loop» che potremmo tradurre, molto liberamente e usando qualche lettera in più, con «Apocalisse cronica», prendendo a prestito un concetto di Karl Kraus, uno che di crisi epocali se ne intendeva avendo vissuto la fine di un impero – quello austroungarico – che si pensava capace di sfidare i millenni e che si schiantò di colpo.   Le cifre delle vittime, infatti, sono sotto gli occhi di tutti: centinaia di palestinesi  e decine di israeliani tra morti e feriti. Come nota Nathalie Thurtle, coordinatrice medica di Msf per i territori palestinesi: «Vediamo quotidianamente le disabilità permanenti e il dolore che questa violenza provoca, e sappiamo che più a lungo continua questo attuale ciclo di violenze, più persone saranno ferite e più continueranno a soffrire anche dopo la fine dei bombardamenti». La dottoressa Thurtle si riferisce a Gaza – che è sotto embargo da 14 anni e che quindi ha una situazione sanitaria tragica già in tempi normali – ma le stesse considerazioni si possono fare anche per le vittime israeliane dell’ondata di violenza. 

E sotto gli occhi di tutti è  anche il fatto che queste crisi violente si susseguono nel tempo senza interrompersi mai. Per non andare troppo in là ricordiamo solo l’ultimo grande scontro nel 2014 – con le truppe israeliane dentro Gaza –  e poi le settimane di violenza del 2018 e 2019. 

 

 L’orizzonte di una soluzione pacifica, infatti,  è durato un attimo, tra gli accordi di Oslo e la stretta di  mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, sotto lo sguardo attento di Bill Clinton. Poi la situazione è andata sempre più deteriorandosi per l’incapacità dei contraenti di capire uno le ragioni dell’altro. I protagonisti sono usciti di scena – Rabin assassinato da un terrorista ebraico di estrema destra – e gli stessi movimenti – i laburisti israeliani e al-Fath – che avevano costruito il difficile percorso della pace sono ormai ombre in una situazione politica che non dominano più. Quello che è rimasto è estremismo da ogni lato – arabi che gridano  «morte agli ebrei» e ebrei che gridano  «morte agli arabi» – come se la soluzione potesse essere militare. E non si tratta solo dell’emotività della folla. Hamas  vuole, da statuto, la distruzione dello Stato ebraico, i governi israeliani hanno continuato ad erodere in Cisgiordania lo spazio di un possibile Stato palestinese. L’idea – mai affermata in modo ufficiale – sembra essere quella di un Grande Israele i cui confini non lasciano spazio a niente altro e i cui limiti non sono sicuramente quelli del ‘48. E forse nemmeno quelli definiti dalla guerra dei Sei giorni. 

 

Per far capire quanto sia intricata la situazione consideriamo la situazione che ha catalizzato l’attuale violenza, cioè i paventati sfratti a Gerusalemme nel quartiere di Sheikh Jarrah. Si tratta di una banale – in qualunque altra parte del mondo – storia di diritti di proprietà. Solo che qui si fa fatica a capire dove stia la ragione se si argomenta in modo onesto.

Gli attuali abitanti delle case contese sono arabi palestinesi, i terreni su cui le case sono state edificate erano di proprietà ebraica, almeno da metà dell’800. Solo che, quando c’è stata la guerra per la fondazione di Israele, quella parte di Gerusalemme, quella ad Est, è rimasta sotto l’amministrazione giordana. La parte a ovest – i quartieri più lussuosi e più belli fuori dalla città vecchia – invece sono diventati da subito Israele. I palestinesi che lì vivevano sono stati, in qualche modo,  espulsi. Una parte di questi si è stabilita a Gerusalemme est, anche nei terreni, una volta di proprietà ebraica,  dove sono state costruite case, da parte dell’amministrazione giordana e con il consenso dell’Onu, per i profughi. Con la guerra dei Sei giorni, però, anche Gerusalemme est è diventata  di fatto – non di diritto, ma questa è un’altra storia complicata – israeliana. Di qui i tentativi di alcune organizzazioni di tornare in possesso dei terreni originariamente di proprietà ebraica attraverso i tribunali. Solo che lo stesso diritto non vale per i profughi palestinesi che hanno lasciato proprietà legittime in Israele. Per loro non esiste alcun  diritto al ritorno.  

 

Insomma con il diritto non se esce, almeno in modo eticamente giusto. E manca qualunque prospettiva di un accordo e quel minimo di buonafede che serve per cercarlo. Così arriviamo alla situazione attuale di Apocalisse cronica. Dove l’unica cosa che aumenta di anno in anno è il numero delle vittime civili. 

 

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