Con la morte di Romiti scompare il secondo, dopo Cuccia, grande protagonista dell’industria italiana dopo i tremendi anni ’70. Cuccia, con la sua Mediobanca, era stato il direttore d’orchestra della finanza italiana del dopoguerra, garantendo gli assetti proprietari delle grandi famiglie imprenditoriali, e gestendo, per quanto possibile, gli equilibri finanziari delle grandi imprese.
Romiti è stato l’organizzatore del salvataggio della Fiat, dopo il primo crollo globale dell’auto a seguito della crisi petrolifera del 1973. Romiti, romano, venne chiamato in Fiat come direttore finanziario per imposizione di Cuccia, del quale era uomo di fiducia.
Allora la Fiat era governata dal suo presidente, l’Avvocato Agnelli, scelto dal nonno fondatore come suo erede, persona mitica e regale, di grande fascino personale, protagonista del jet set internazionale, con relazioni al massimo livello in tutto il mondo. Ma del tutto inadatto, probabilmente per suo disinteresse, a gestire l’operatività quotidiana di una grande società in un mercato competitivo come quello dell’auto, con i Giapponesi alla conquista dei mercati mondiali. La Fiat stava sprofondando in una crisi finanziaria profonda, vicino ad essere nazionalizzata, per salvare le centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Cuccia impose Romiti come salvatore, con il sostegno di un solido pacco di soldi da parte di Gheddafi. (si, proprio lui… il mondo è piccolo). Romiti, romano con solidissime relazioni politiche, un duro vero, con un fisico robusto (fondamentale per le trattative notturne con il sindacato, perché gli accordi - ora come allora - si firmano alle 5 del mattino), si impose rapidamente come risanatore e leader dell’azienda, lasciando all’Avvocato la rappresentanza della società e le permanenti trattative per la sua cessione (sempre annullate all’ultimo momento). Romiti organizzò (indirettamente) la storica marcia dei 40 mila (quadri ed impiegati Fiat) contro la politica aggressiva del sindacato, avviando così per la sinistra storica il cammino verso un riformismo di matrice socialdemocratica. La marcia dei 40 mila, con la sconfitta del sindacato e di Berlinguer, è stata una svolta della democrazia italiana, e Romiti ne è stato il protagonista. Romiti era posseduto da un’ambizione smisurata, che lo portò successivamente a compiere una serie di errori «fatali».
Nel suo piano di diventare il capo della Fiat, collocando l’Avvocato in una posizione di sola rappresentanza, iniziò con l’emarginare Umberto Agnelli, fratello minore dell’Avvocato e vicepresidente, unico altro erede della famiglia presente nei vertici Fiat. Poi passò ad attaccare Ghidella, il creatore della Uno, e capo degli ingegneri Fiat, suo cuore pulsante. Lo attaccò con accuse di «cooperazione impropria» con alcuni fornitori, così che alla fine, con l’Avvocato in posizione pilatesca, Ghidella fu costretto a dimettersi.
Questo fu un errore fatale, anzitutto per la Fiat stessa, che con Ghidella perse una sua leadership mondiale nel settore delle auto di media cilindrata.
Per la Fiat iniziò un nuovo declino, per ritrovarsi agli inizi degli anni duemila sull’orlo di un nuovo fallimento. Per fortuna l’eterno secondo Umberto Agnelli (deceduto prematuramente), presidente Fiat dopo la scomparsa del fratello, suggerì di nominare Marchionne come suo successore, ma questa è storia dei nostri anni.
Quando alla fine Romiti lasciò l’incarico Fiat, per la sua liquidazione pretese (anticipando una pratica poi usuale per i grandi manager d’impresa) una percentuale sull’aumento del valore borsistico di Fiat durante il suo periodo d’incarico, una somma attorno ai 105 miliardi di lire (di allora).
Con quei soldi avviò, ultimo errore fatale, una propria attività imprenditoriale con i figli. Che alla fine si rivelò un totale disastro.
Romiti è stato uno dei grandi manager dell’Italia industriale dell’ultimo quarto del secolo scorso. Aveva eccezionali capacità di leadership.
Ma in certi momenti, con il dovuto rispetto, gli è mancata forse una piccola grande virtù raccomandata dagli antichi Greci: il senso dei propri limiti.
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