Le discussioni dell’altro ieri sul Mes ci dicono che l’Italia è di fronte a una scelta netta tra due opzioni tra le quali non ci può essere compromesso: imboccare la strada virtuosa indicata dal Recovery Fund presentando rapidamente un piano coordinato e coerente con le indicazioni europee; non imboccarla, entrando nel circuito vizioso delle clientele, del caos amministrativo, della spartizione di fondi, di lavori e di appalti.
Il punto è abbastanza semplice: ora che l’Europa ha deciso di diventare quello che speravamo iniziasse a essere, ottenendo la capacità di indebitarsi direttamente per distribuire il ricavato tra le nazioni che la compongono, e ha acquistato così quei caratteri di sovranazionalità solidale che garantiscono il suo futuro e quelli degli stati, una parte consistente dell’Italia politica rifiuta di «partecipare» e si rifugia in pregiudizi ideologici e nella demagogia disinformata.
Mi spiego: c’è chi ha scommesso sul fallimento dell’Europa e su un futuro nel quale Italexit fosse una prospettiva praticabile. Il fatto che l’Unione abbia coraggiosamente, per la concorrente volontà di Germania, Italia e Francia, e il concorso intelligente di Ursula von der Layen (ben diverso il suo approccio da quello dei predecessori), stabilito di guidare il ritorno al futuro del continente adottando una serie di misure finanziarie e di finalità capaci di restaurare le capacità economiche delle nazioni, di ristabilire un efficace livello di socialità e di ricollocare il «sistema Europa» al centro delle innovazioni sulle quali si giocherà la competizione del secolo XXI non poteva non essere accolto con dispetto da chi, nel nuovo contesto, ha visto diminuire i propri spazi politici rendendo necessaria una ricollocazione meno radicale, con il recupero dei valori della destra storica e tradizionale: una destra virtuosa in campo economico e liberale, la destra di Quintino Sella e di Luigi Einaudi.
Ma oggi, anzi ieri, la situazione ha improvvisamente raggiunto la drammaticità: l’Italia ha firmato il documento di riforma del Mes, quello generale, che ne attenua i caratteri più duri e ridefinisce i sistemi di sostegno dei sistemi bancari.
Un aggiornamento che, a occhio, avrebbe dovuto raccogliere un ampio consenso, visto che noi italiani, da decenni, siamo iscritti, per nostra volontà e insipienze governative, nell’«elenco dei cattivi», elenco dal quale siamo provvisoriamente usciti nel momento in cui s’è deciso di combattere tutti insieme la pandemia.
Certo, alcuni erano in attesa di uno spunto qualsiasi per riaprire la polemica con l’Europa.
È stata addirittura ribadita la contrarietà al Mes sanitario (36 miliardi da spendere nella ricostruzione di un sistema sanitario nazionale) benché oggi gli interessi da pagare sul prestito siano negativi: dovremo cioè restituire meno dei 36 miliardi che l’Unione è pronta a erogarci.
È a questo punto evidente che lo scontro -l’ultimo scontro, una specie di Ok-Corral- è quello finale e decisivo.
C’è un elemento che è sotteso a tutta la vicenda Mes: esso consiste nella volontà di alcuni di perpetuare le politiche di dissipazioni di risorse a spese delle generazioni future, contando sull’idea e la possibilità di non restituire mai a nessuno le migliaia di miliardi di debito pubblico accumulato, appunto, per dissipazioni. Queste migliaia di miliardi sono per la maggior parte detenuti da italiani, talché l’idea un po’ folle è di privarli dei capitali (o di parte dei) accumulati per la vocazione nazionale al risparmio, di cui sono protagonisti milioni di cittadini, lavoratori e pensionati che distolgono una parte minima dei loro introiti per investirli in titoli di debito pubblico.
E, oggi, lo si deve sapere -e lo deve sapere anche Silvio Berlusconi, rientrato nella fase ondivaga e satellitare- la partita è semplice: l’Europa è il futuro, sul piano economico, sociale e politico. Ed è il futuro perché compie uno sforzo collettivo, di cui noi saremo ampiamente beneficiari netti, sulla ripresa e sull’aggiornamento del sistema in settori cruciali per competere nel secolo iniziato: energia, informatica, sostenibilità.
Dall’altra parte, c’è il rifiuto, cioè la caduta nel burrone sui cui margini allegramente, prima del Covid, ci siamo trastullati nell’indecisionismo voluto da una parte determinante della politica nazionale, quella che si è purtroppo rivelata impreparata alle responsabilità di governo.
Non disperiamo, tuttavia. Lo stato dell’arte è sì terminale, ma la ragione potrebbe prevalere.
DOMENICO CACOPARDO
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