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Quegli spari  in piazza e l'angoscia da pandemia  

Quegli spari  in piazza e l'angoscia da pandemia   

di Vittorio Testa

20 Ottobre 2020, 09:26

Nessuno può dire se nella follia del pistolero di Reggio Emilia abbia avuto un qualche ruolo  il clima di angosciosa incertezza e e di paura, di timore e tremore che da mesi  viviamo, schiacciati da un pesantissimo e ormai cronico stress da pandemia. Potrebbe sembrare una domanda assurda, alla quale replicare con un’altra domanda: c’è chi possa dire che se la lite tra il gruppetto di ragazzi e l’uomo iracondo fosse capitata in tempi ante-pandemia, anziché con il piombo, sarebbe finita al massimo con uno scambio di insulti se non proprio con reciproche scuse? Non ci avventureremo certo  in una semplificatoria e banale psicologia di comodo. Limitiamoci a mettere insieme i fatti, le realtà incontrovertibili. L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che ora la priorità di intervento dovrà essere dedicata alla salute mentale. Il trauma provocato dalla pandemia e dalle conseguenti misure di blocco, distanziamento sociale, da quei 56 giorni di reclusione generale, è ancora tutto da approfondire. E’ uno stress inedito in tempi moderni: non è come un terremoto o un’altra calamità  naturale  che seminata distruzione e morte finisce, e dunque si passa dal dolore e dal lutto alla ricostruzione, alla speranza, a lavorare per uno scenario che segnerà il ritorno a una vita migliore. Lo stress da pandemia è subdolo, carsico, infido. L’angoscia è padrona assoluta della nostra mente. E’ perdurante e devastante, non si intravede la fine del patimento e  si nutre della cosiddetta «infodemia», l’eccesso di brutte notizie, uno tsunami di informazione negativa. 
Anche  la rappresentazione scenica del dramma ha un che di inquietante. Una comunità in mascherina evoca ancestrali terrori, contagi mortali, immagini da imminente day-after. Insinua in ciascuno di noi la diffidenza nei confronti del prossimo, ché chiunque potrebbe essere l’untore. E soprattutto è uno stress che sembra non aver mai fine. È la terribile condizione nella quale ci ha gettati il Coronavirus: ci ha rubato il futuro.
Ci sono già alcuni dati che indicano la profondità del dramma che stiamo vivendo. Dal mese di marzo a settembre si contano cinquantasei  suicidi  e quaranta tentativi. L’anno scorso nello stesso periodo erano stati sedici e dieci tentativi. E teniamo presente che siamo arrivati alla pandemia in un contesto di crisi economica che ormai dura da dodici anni. C’è un dato che fa accapponare la pelle: dal 2012 al 2018 ci sono stati mille suicidi di imprenditori, commercianti e artigiani. 
E poi c’è l’immenso dolore, una disperazione sottile, pervicace, per aver visto morire se non di,  certo con il Covid 19, nostri cari, e parenti e amici. Speso morti in maniera straziante, senza il conforto di una visita, di un gesto di pietas. Siamo maestri, noi moderni, nell’opera di costante rimozione della morte: e siamo riusciti, nell’esercizio del dubbio e del completo rigetto della sgradita realtà,  a diventare in numero non esiguo «negazionisti». Dentro questa nostra epoca di dolore e disperazione si staglia il problema - enorme - del futuro dei nostri giovani. C’è una generazione  che si sta formando in questo clima di incertezza, paura, sfiducia. Il naturale desiderio di conoscere, frequentare gli altri è diventato scarsamente praticabile. Sono ragazzi ormai avvezzi alla negatività quotidiana. È la generazione della pistola-termometro puntata sulla nuca a ogni ingresso pubblico, delle file estenuanti, della riduzione degli spazi e delle occasioni per lo studio e il divertimento. 
Quando poi l’impeto vitalista della gioventù trascende, come ormai è frequentissimo vedere, a comportamenti inaccettabili di bullismo e di episodi da teppista; e quando, esasperati dal nostro stesso malessere e resi aggressivi senza più freni inibitori, siamo mine vaganti pronte a deflagrare rovinosamente, ecco che le probabilità di reazioni irrazionali e distruttive prendono il sopravvento. Il pistolero di Reggio Emilia, irritato dai ragazzi che non gli avevano ceduto il passo, è corso a casa e,come un signorotto del Seicento offeso nell’onore, si è ripresentato ben deciso a impartire una lezione «a quei giovani maleducati», ha detto dopo avergli sparato nove colpi. Né sembrava scosso più di tanto dall’esito drammatico provocato dalla sua azione: «Forse ho esagerato» si è limitato a commentare. Aggredire, minacciare, odiare e sparare è diventato cosa di tutti i giorni, in questa sciagurata epoca di pandemia che ci sta cambiando nel profondo e ci costringe a vivere tremebondi, in balìa dell’ignoto. Un po’ come Giuseppe Ungaretti soldato in trincea nel 1918: «Si sta come/d’autunno/ sugli alberi/ le foglie».   
 
 

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