di Domenico Cacopardo
Il 20 settembre, nel referendum costituzionale voterò no, per sostanziali e irrinunciabili ragioni.
Innanzi tutto, la riforma costituzionale, voluta dai grillini e consistente nella riduzione del numero dei deputati a 400 e dei senatori a 200, non risolve alcun problema strutturale dello Stato. È la manifestazione conclusiva di una campagna di delegittimazione dell’istituto parlamentare avviata da Gianroberto Casaleggio e proseguita da Beppe Grillo e seguaci. Sostenne Casaleggio che il sistema della rappresentanza era obsoleto e andava sostituito dalla democrazia diretta, mediante consultazioni e manifestazioni di volontà via web. Il web cui pensava il cofondatore dei 5 Stelle è una modalità di decisione farlocca: il potere è nell’amministratore del sito che può manipolare a piacimento le comunicazioni dei partecipanti.
Il medesimo web è lo strumento principe per la manipolazione dei seguaci di un’organizzazione tipo 5 Stelle e di fette più ampie di elettorato. Sono decine i casi manifestatisi negli anni che ci separano dal primo successo elettorale grillino del 2013. Questa è la prima delle ragioni che militano per votare no.
La seconda è più politica. Una vittoria del sì ha il senso di un successo politico del Movimento 5 Stelle e, quindi, del consolidamento dello stesso nel panorama politico nazionale. Un Movimento cui è già parzialmente riuscita un’altra operazione manipolatoria. Una capriola a 180 gradi: mantenere il rifiuto e il disprezzo per l’«establishment» pur essendone diventato componente. Soffiare contro la «casta» quando si è proprio diventati «casta».
La riduzione del numero dei parlamentari - e qui veniamo al terzo motivo per il no - riduce la rappresentanza dei cittadini, in un contesto in cui (e questo era il ganglio cruciale sul quale intervenire) gli elettori non possono scegliere gli eletti. Possono solo scegliere le liste, nelle quale risulteranno eletti coloro che occupano i primi posti.
Essendo il partito di ampia maggioranza relativa, i grillini - organizzazione padronale, lontana 1.000 miglia dalla pratica democratica - ben potevano, vista la crisi, da loro asserita, dell’istituto parlamentare, mettere all’ordine del giorno la reintroduzione del voto di preferenza. Se non si affronta il cuore della questione, tutti gli altri interventi diventano inutili se non peggiorativi della situazione attuale. Il fatto che alla Camera dei deputati sia stato fissata per la fine del mese, la discussione della nuova legge elettorale, per il momento non dà alcuna garanzia di cambiamento dell’attuale sistema.
Infine, voterò no perché la vittoria del no sarebbe la sconfitta del grillismo. Una sconfitta che lo colpirebbe al cuore, sul punto su cui ha puntato per ottenere un immeritato successo istituzionale. La circostanza che una eventuale vittoria del no potrebbe costituire, insieme a un risultato disastroso alle regionali per il Pd, l’innesco di una crisi di governo, non può essere invocata per chiedere un’approvazione della riforma costituzionale. La crisi di governo, da tempo matura, sarebbe l’occasione che attendiamo per un governo istituzionale, a guida Draghi o Cottarelli, che gestisca il Recovery Fund ed elezioni anticipate a primavera.
Il Pd, fatalmente, deve ritrovare la strada (e il leader) per essere l’interprete dell’alternativa riformista da tempo perduta.
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