Ciò che conta, alla fin fine, sono i conti. Cioè i numeri.
Ursula von der Leyden ha finalmente svelato il programma di interventi dell’Unione europea per contrastare gli effetti economici e sociali della pandemia di Covid-19: 500 miliardi di euro «grant» (regalo) e 250 miliardi di euro «loan» (prestiti). All’Italia toccherebbero 82 miliardi di sussidio e 90 di prestiti. I 4 «frugali» che si oppongono (Danimarca e Svezia fuori dall’Eurozona, Austria e Olanda dentro) non hanno grandi prospettive di affermare la loro posizione, almeno finché la Germania non tentennerà. E, a questo punto, non tentennerà. L’Olanda in particolare deve guardarsi dalla fronda che avanza contro la sua legislazione che appare sempre più dumping societario e fiscale.
Comunque, tanto di cappello. Dobbiamo però sapere che questo è un passo, importante sì, ma pur sempre un passo, nel procedimento per arrivare, un giorno - non domani - a disporre degli euro in questione: il 19 giugno, intanto, ci sarà l’incontro del Consiglio europeo e poi, a seguire, tutti i passi formali che permetteranno all’Unione di provvedersi delle risorse in ballo.
In Italia, qualcuno ha dichiarato: troppo poco. Dimenticando che queste risorse sono una delle varie frecce a disposizione dell’Unione: 100 miliardi del «Sure» (Cassa integrazione); la linea di credito da 200 miliardi disposta dalla Bei (Banca europea investimenti) volta a fornire garanzie e a finanziare le imprese piccole e medie per «progetti convincenti»; il famoso Mes di 240 miliardi (per l’Italia 38) col vincolo di scopo, cioè il finanziamento diretto e indiretto di costi sanitari derivanti dalla pandemia (e qui va deplorata la disinformazione: Spagna e Portogallo non ricorreranno al Mes perché si provvedono a costi inferiori); la Bce che ha modificato il «quantitative easing», eliminando il limite del 33% per gli acquisti dei titoli di stato su ciascuna emissione e quello del 50% per i titoli del debito emessi dagli organismi sovranazionali, potrà acquistare debito di ciascuno stato illimitatamente. Inoltre ha avviato il piano di acquisti di bond con il nuovo piano detto PEPP («Pandemic Emergency Programme Purchase»), con una potenza di fuoco da 750 miliardi di euro, che si aggiunge ai 120 miliardi già stanziati o e ai 20 miliardi mensili varati negli ultimi mesi della presidenza Draghi.
Questo significa, in consuntivo, che la disponibilità del complesso delle istituzioni comunitarie supera decisamente i 2.000 miliardi, considerati equiparabili (con gli sforzi di ogni nazione) a quanto messo in campo dagli Stati Uniti (che non avevano i meccanismi di welfare esistenti in Europa).
Questo il quadro che, tuttavia, non può indurre alla finanza facile, tipo reddito di cittadinanza. Non potremo più pagare qualcuno perché se ne stia casa a non lavorare.
Quello che sta per accadere, nella migliore delle ipotesi (che tutte le iniziative comunitarie vadano in porto dal 1° gennaio 2021) - la peggiore, per ora, non la consideriamo - è che dovremo affrontare un duro periodo di ricalibratura della finanza pubblica, accompagnata dal ricorso alle risorse comunitarie per le operazioni e nei limiti in cui esse saranno ammesse. Una ricalibratura che metterà a dura prova qualsiasi coalizione si troverà al governo.
Dobbiamo però scrivere a carattere cubitali nelle nostre menti che i soldi che ci verranno regalati e quelli che ci saranno prestati a condizioni di favore non saranno privi di condizioni. Condizioni che - è facile prevederlo - confliggeranno con i piani di una parte della politica, che con il Covid-19 ha provato la spesa facile e non vi rinuncerà facilmente.
È sulle condizioni che si scrive il futuro.
Accettarle e attuarle significa superare la concezione di uno Stato soccorritore o optare per Stato sostenitore dello sviluppo e del benessere.
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