Ce lo ricordiamo cosa dicevamo quando, all’esplodere dell’epidemia in Cina – e prima che l’emergenza dilagasse fino in casa nostra – le autorità di quel Paese avevano ordinato la chiusura totale dell’intera provincia di Hubei (quella che ha come capitale Wuhan)? «Un territorio di quasi 60 milioni di abitanti: è come se chiudessero tutta l’Italia». Erano parole che sottintendevano, con una punta di ironico scetticismo, la convinzione che da noi una cosa del genere sarebbe stata semplicemente inconcepibile, a causa della nostra nota predisposizione a infischiarcene delle regole, o quantomeno ad aggirarle, e che solo in uno Stato autoritario come quello una simile restrizione della libertà sarebbe stata concretamente applicabile.
Fino al giorno prima del lockdown del Belpaese, quando la chiusura già in atto nelle zone rosse avrebbe dovuto metterci seriamente in allarme, i comportamenti individuali non erano stati così improntati alla necessaria prudenza, anzi avevano continuato a denotare per lo più un’allegra irresponsabilità. Poi era arrivato il blocco totale dell’intera penisola, che a sorpresa ha restituito fin da subito l’immagine di una nazione messasi diligentemente e pazientemente in riga, conscia della necessità di un sacrificio collettivo per potersi garantire quanto prima un ritorno alla libertà temporaneamente perduta. Una reazione che ci era valsa anche l’ammirazione e la solidarietà degli altri Paesi, perfino quelli più abituati a mettere l’accento sui nostri difetti nazionali.
Passato il picco dell’emergenza, svuotati i reparti Covid allestiti con drammatica urgenza negli ospedali, riaperta ormai per intero l’Italia, ecco però che si deve riscontrare un ritorno alla spensieratezza e talora all’imprudenza che onestamente non era prevedibile e che sicuramente non è opportuno. La voglia di uscire, di stare in compagnia e di fare tutto quello che si faceva prima è esplosa probabilmente con troppa enfasi e velocità (i luoghi pubblici affollati e le movide festaiole da nord a sud ne sono un’eloquente e inquietante testimonianza), lasciando spiazzati tutti coloro che avevano creduto in un repentino cambiamento «genetico» della nostra tradizionale indole.
Certo ora tutti stanno molto più attenti di prima, un sano «timore» nell’avvicinare gli altri ci accompagna ormai stabilmente e le mascherine sono indossate pressoché da tutti, però appare evidente che in generale non stiamo più prendendo la situazione così seriamente come avveniva fino a non molti giorni fa. Lo scampato pericolo – almeno per coloro che hanno avuto la fortuna di non contrarre il virus o di non avere un caso in famiglia – forse sta inducendo troppe persone ad avere troppa fretta di far tornare tutto com’era prima. Dimenticando che è ancora presto per pensarla così e che serviranno ancora molto tempo e soprattutto molta responsabilità prima che il mondo fuori dalla porta di casa nostra possa tornare ad essere il posto sicuro che eravamo abituati a conoscere. Quindi, anche se ora ci lasciano uscire di casa, non dimentichiamoci che la serietà e l'allerta devono continuare a mantenersi agli stessi livelli di quando non potevamo muoverci. L’alternativa è che l’eccessiva spensieratezza da parte anche solo di una parte di italiani provochi un ritorno a misure drastiche, il che è l’ultima cosa di cui il Paese ha bisogno in questo momento.
FRANCESCO BANDINI
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