di Filiberto Molossi
È vero: c'è altro a cui pensare. Ad esempio, se e quando andremo in vacanza e a quanti metri (di sicurezza) starà il vicino d'ombrellone. Ma anche quando torneremo a fare l'«ape» con gli amici e quale sarà il giorno in cui potremo andare finalmente dal parrucchiere, cenare al ristorante, correre sul tapis roulant in palestra. Tutto lecito, tutto nella norma: nostalgia di una normalità che non avremmo mai creduto di dovere rimpiangere così tanto. Ma c'è una parola che sia nella fase 1 (quella della paura) che nella fase 2 (quella della speranza) sembra scomparsa dal vocabolario, oltre che dai radar, di chi abita nella stanza dei bottoni. Una parola semplice, anche se non inoffensiva, che logora solo chi non ce l'ha: cultura. Ripeto: c'è altro a cui pensare. Però sono onesto: mi sarebbe piaciuto che tra una lite per la ripresa della serie A e un'autocertificazione e l'altra si fosse trovato il tempo per buttare lì, anche per sbaglio, una parola, che ne so, per i cinema, i teatri o magari per la lirica: che sì, è cosa diversa - e un filo più impegnativa -, della pur simpatica tradizione di cantare da un balcone. E invece silenzio. Indifferenza. O magari semplice distrazione. «Chi penserà a noi? Chi penserà ai fabbricanti di sogni?» si domandava, solo pochi giorni fa, in una lettera inviata al presidente del Consiglio e ai suoi ministri, una direttrice di casting. Già, chi penserà ai lavoratori dello spettacolo? Esistono, o sono in programma, interventi seri in loro favore?
Che poi il punto non è nemmeno solo questo: ma è oltre, è altro. Allargando la scena, sorge infatti spontanea un'ulteriore domanda: chi penserà a chi stava in platea? Chi penserà a noi? Noi che piangevamo durante un film, che applaudivamo un monologo, che ci esaltavamo per una romanza. Perché a forza di non nominarla quella parola, di non citarla mai, se ne perde il senso e la portata. E' vero: c'è altro a cui pensare. Ma a forza di pensare ad altro non facciamo che rafforzare la convinzione (ormai fastidiosamente serpeggiante) che andare al cinema, a teatro, a una mostra o a un concerto fosse un di più: qualcosa di cui possiamo (o addirittura dobbiamo) fare a meno. Quando invece sospirare per la sorte del personaggio di un film, ridere senza vergogna alla battuta di un attore o saltare come pazzi sotto il palco di un concerto rock ci rendeva semplicemente migliori.
Andare al cinema, a teatro, assistere a uno spettacolo di danza o all'esecuzione di una violinista non era - e non è mai stato - solo uno svago, l'impiego futile del nostro tempo libero: ma un modo per crescere, per confrontarci, per metterci in discussione. Per nutrirci, per imparare qualcosa di più su di noi. E sugli altri. Siete disposti a rinunciare a tutto questo? Tocca decidere cosa fare: se restare in silenzio, ad esempio. O alzare la mano – e la voce – per ricordare al signor Conte che la cultura conta.
FILIBERTO MOLOSSI
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