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Addio (Tripoli) bel suol d'amore

Addio  (Tripoli)  bel suol d'amore

22 Dicembre 2019, 13:17

DOMENICO CACOPARDO   
Truppe turche sono sbarcate a Tripoli, da dove erano state allontanate dalle regie forze armate nel 1912. Che questo fatto, al di là dell’esiguo numero di soldati in avanscoperta inviati da Erdogan, segni la fine di qualsiasi influenza o peso italiano su quella terra che fu la nostra terza sponda - senza alcun rimpianto colonialista - è una constatazione elementare di cui ognuno può rendersi conto. 
Va ricordato che dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante quant’era accaduto dal 1912 al 1943, i rapporti tra Libia e Italia sono sempre stati amichevoli e intensi. Un po’ perché l’Eni, il potentato petrolifero nazionale, sapeva gestire le cose per bene, un po’ perché l’Italia democristiana era attenta agli equilibri mediterranei, vitali anche per il peso che avremmo potuto esercitare in Europa e con gli Stati Uniti. Addirittura, Silvio Berlusconi -una personalità criticabile per molti versi, ma che per gli affari aveva un intuito speciale- giunse a negoziare e a definire un’intesa con Muhamar Gheddafi. Tutti la ritenemmo di ferro: era di coccio. Tanto che, alle nostre spalle, nel delirio politico di Obama che ha sconvolto il Medio-Oriente, finimmo per tradire l’accordo, giungendo a inviare i nostri Tornado a bombardare la Libia, insieme a francesi e americani. Un voltafaccia, una debolezza che ci squalificarono di fronte a tutto il mondo arabo. Qualcuno si chiede cosa potesse fare di diverso Berlusconi. Rispondo che sarebbe bastato offrire asilo politico (grande strumento di politica internazionale felicemente praticato dalla Francia) a Gheddafi, per non perdere la faccia.

Oggi, c’è poco da recriminare: c’è da indignarsi sul presente e sulla cessazione dell’influenza italiana. E abbiamo abdicato al ruolo di potenza regionale, il giorno in cui Giuseppe Conte, in versione giallo-verde, dichiarò esclusa l’opzione «Uso della forza». E non perché volessimo usarla, questa benedetta forza, ma perché si trattava di una scelta pregiudiziale sventata e autolesionista: la politica estera comporta sempre la minaccia o l’esercizio di una forza, come si legge nei libri di storia. 
Certo, noi italiani non abbiamo le risorse per sostenere un intervento in Libia. Ma avevamo la possibilità di tentare, mettendo a fattor comune la nostra calante influenza, un’intesa europea volta a realizzare un intervento di «Peace keeping» o di «Peace enforcing», realizzato con una missione internazionale comunitaria. Si sarebbe ottenuta così non tanto la marginalizzazione degli attuali protagonisti, ma la riaffermazione del ruolo dell’Unione in un’area cruciale per la pace nel mondo. 
Ricordo che il satrapo di Ankara e Al Sarraj, primo ministro libico, sostenuto dall’Onu e, - udite! Udite!-, da noi, hanno convenuto un sostanziale ampliamento delle acque territoriali dei due stati, talché zone internazionali, teoricamente interessanti per le estrazioni italiane, sono state confiscate. Senza alcuna reazione.
E pensare che solo martedì l’Italia ha mandato il suo ministro degli Esteri a fare un giro in Libia. Un giro disastroso, giacché Di Maio ha mostrato di non essere informato e di non conoscere la «pratica», esponendoci a un’ennesima pessima figura.
Mentre l’uomo della Farnesina azzardava dichiarazioni fuori contesto, annunciando addirittura la nomina di un plenipotenziario italiano (per fare cosa, visto che i giochi sono compiuti?), i turchi erano già in forma non ufficiale a Tripoli e mostravano concretamente il loro appoggio ad Al Serraj. Si appropriavano cioè della leadership di una metà di quel disgraziato Paese.
La politica estera è affare complesso e delicato. Inesperti e dilettanti procurano danni.

www.cacopardo.it
 

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