La vendita di Alitalia è una storia infinita, come quella della Brexit che va avanti a forza di proroghe e di cui per ora non si vede la fine. Ieri, infatti, il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha rinviato al 21 novembre il termine per la presentazione dell’offerta vincolante da parte degli acquirenti. È la settima volta che accade. Ed è possibile che non sia l'ultima.
Il perché è presto detto: i conti della società non sono in ordine perché Alitalia, per come è configurata, non riesce a stare su un mercato terribilmente competitivo come quello del traffico aereo. La nostra ex compagnia di bandiera non riesce a tenere il passo delle compagnie low cost sulle tratte brevi e non ha capitali sufficienti per aggredire il mercato, più redditizio, delle lunghe distanze. In pratica è come Alibante da Toledo, il cavaliere moro che, nella versione parodistica del Berni dell'«Orlando innamorato» del Boiardo, «del colpo non accorto, / andava combattendo ed era morto».
Il fatto è che questa situazione costa molto alle casse dello Stato: con l'ultima iniezione di capitali - i 350 milioni di «prestito ponte», che prestito non è perché difficilmente verrà restituito, previsti nel decreto fiscale - siamo arrivati a un miliardo e 250 milioni di euro in due anni e mezzo. E c'è chi, addirittura, propone di rinazionalizzare totalmente la società, visto che i soci privati non sono proprio felici di impegnarsi in un rilancio che si prospetta quasi impossibile. Ma questo non si può fare per fortuna. Una volta tanto i vincoli dell'Unione europea ci tutelano da un ulteriore spreco di denaro pubblico, cioè di tutti noi.
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