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Di Maio tenta di uscire dal «cul de sac» in cui è finito

Di Maio tenta di uscire dal «cul de sac» in cui è finito

di Domenico Cacopardo

24 Gennaio 2020, 08:39

Non dispongo delle certezze che molti hanno espresso dopo le dimissioni-nondimissioni da «capo» dei 5Stelle di Luigi Di Maio. So, come tanti, che il futuro ha sì un cuore antico ma che sono le radici a determinarne il realizzarsi. E le radici del domani e del dopodomani sono come non mai fragili alla luce della nuova fase nella quale dovrebbe essere entrato il Movimento 5Stelle: abbandonato il finto monolito, ci troviamo di fronte a tante posizioni, difficilmente sintetizzabili, preludio dell’avvento dell’anarchia, nella quale i personalismi e gli interessi di botteguccia prevarranno sulle impostazioni ideali. 
Per questa ragione, più che quelle della politica, sono le leggi naturali a indicare che il prossimo sarà un periodo travagliato, uno dei più travagliati della seconda Repubblica, mentre la terza che sembrava essersi affacciata alla ribalta è stata ricacciata decisamente indietro.
Le dimissioni-non dimissioni di Luigi Di Maio si riveleranno soprattutto per lui -che ha immaginato realizzabile la furbata  «Vado, ma resto» come  via d’uscita dal «cul de sac» in cui s’è infilato il movimento e, con esso, lui che ne era il «capo» - la fine di una storia e di un progetto sostanzialmente eversivo. 
È inutile nascondercelo in un empito buonista, ma la realtà è che il duo Grillo-Casaleggio immaginò e realizzò un progetto politico nel quale i loro interessi personali erano ben fertilizzati e tutelati. Dai due discese l’investitura di Di Maio, un delegato con pieni poteri limitati tuttavia dai poteri maggiori dei suoi mentori o padroni.

E non è un caso che uno dei punti critici su cui il Movimento ha iniziato a deragliare è stato costituito dal contributo «obbligatorio» che ogni eletto avrebbe dovuto versare a Rousseau, la piattaforma di cui Davide Casaleggio è padrone, a beneficio dei suoi conti (peraltro lievitati da quando i grillini sono al governo). Questo taglieggiamento era, peraltro, sostenuto da un patto estorsivo (richiamato nel discorso di mercoledì da Luigi Di Maio che, spesso, troppo spesso, non sa quel che dice) che imponeva a chi eventualmente operasse in dissonanza con gli ordini del «capo» una penale di 300.000 euro. Un patto, all’evidenza, nullo e anticostituzionale (giacché contrario alla libertà di mandato) sul quale, peraltro, l’autorità giudiziaria non s’è mai intrattenuta.
Quindi, occorre ragionare non in termini strategici, ma per l’immediato prossimo venturo, cioè in vista del referendum costituzionale e dell’appuntamento elettorale. E non è detto che il secondo non si sovrapponga al primo, vista la falcidia di seggi che produrrà l’entrata in vigore della riforma costituzionale sul numero dei parlamentari.
Per questa ragione, ha torto Giuseppe Conte a sostenere che l’evoluzione del Movimento 5Stelle non si rifletterà sulla stabilità del governo. Basti pensare agli effetti delle defezioni (che si susseguiranno) sui numeri del Senato. Qui, oggi, il governo è già ai minimi termini e basterà poco perché vada sotto su uno qualsiasi dei provvedimenti in itinere.
Insomma, i 5Stelle sono su un ripido piano inclinato ed è possibile che, su di esso, siano seguiti dal partner di governo più rilevante, il Pd. E non è difficile supporre che all’interno della maggioranza qualcuno pigerà il piede sull’acceleratore dei «distinguo» aprendo la crisi. Anzi, a dire il vero, la crisi di sistema è già aperta dal momento in cui il partito più votato nel 2018 ha perso più di metà del suo elettorato.
Le incertezze che manifestiamo sono destinate a diffondersi, visto che sarà difficile convincere gli italiani che questo governo ha la forza per andare avanti altri 3 anni.
Ma, come sempre, le situazioni -per essere affrontate (visto che i politici di questi tempi duri non anticipano mai le emergenze, ma le inseguono)- debbono maturare molto. Forse debbono marcire, mentre l’opinione pubblica subisce e attende. Ma non all’infinito.
 

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