Ha passato 22 anni in carcere: da innocente. Non ci sono state né leggi, né giudici, né avvocati capaci di liberarlo. C'è voluta l'ostinazione di una madre. No, non la sua. Quella della vittima. La mamma di una ragazza stuprata e uccisa che non si è accontentata della versione ufficiale, di un nome e di un volto; ma che ha trovato da sola l'unica cosa che potesse permetterle di dormire la notte: la verità. È una storia da film, un'incredibile e amarissima (nonostante il finale) vicenda quella accaduta negli Usa a Christopher Tapp: trasformato da possibile teste in orco assassino, è entrato in cella a 20 anni e ne è uscito l'altro giorno. A 42. Un incubo che però forse può insegnarci qualcosa. Innanzitutto (ma non è una novità) la blasfema follia della pena di morte: inutile vendetta di Stato che incorre in errori clamorosi e irrimediabili. Per Tapp - neanche a dirlo - l'accusa l'aveva chiesta. Ma si apre anche un'altra partita altrettanto importante: quella della certezza processuale della responsabilità dell’imputato. E' un tema dibattuto anche in Italia e non da oggi: se 50 anni fa un patriarca del diritto come Giandomenico Pisapia salvava con la sua testimonianza un innocente, l'odierna fretta di sbattere il mostro di turno dietro le sbarre, di chiudere il caso così non se ne parli più, di voltare pagina a costo di confessioni estorte, è segno della debolezza genetica di una società pigra che alla verità - complessa, tortuosa, spesso invisibile - preferisce soluzioni facili o prefabbricate. Dimenticando che davanti a prove incerte, incomplete o, peggio, mistificate, si impone l'assoluzione. E solo quella.
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