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La Costituzione e i principi di civiltà insuperabili

La Costituzione e i principi di civiltà insuperabili

di Cesare Azzali

09 Luglio 2019, 13:11

Le polemiche di queste settimane originate dalla vicenda dell’immigrazione dovrebbero essere motivo di riflessione e preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tenuta dell’unità e il futuro della nostra comunità nazionale. In particolare sono due gli elementi che meriterebbero una riflessione approfondita. Il primo è quello dei contenuti e della forma del confronto politico. All’analisi della situazione, dei suoi contenuti concreti, delle possibili soluzioni ai problemi che derivano dalla gestione dell’immigrazione, sembra essersi sostituita una visione da “tifo calcistico” della peggior specie in cui ognuno sostiene, senza alcuno spirito critico, la propria “squadra”. Assistiamo a una sorta di regressione della società alla lotta fra Orazi e Curiazi, Montecchi e Capuleti, Guelfi e Ghibellini, senza un’effettiva disponibilità ad ascoltare e valutare le idee e gli argomenti di chi è dell’altra “fazione”, ed è un atteggiamento che, in varia misura, coinvolge e tengono quasi tutti. Un altro aspetto che è ancor più pericoloso per la stessa tenuta della convivenza democratica del nostro Paese è l’affermazione della possibile anzi “doverosa” violazione della legge quando non corrisponde alla propria etica, alle proprie idee e visioni del mondo. La contrapposizione fra ciò che è legittimo, perché conforme alle leggi, e ciò che è giusto, perché corrisponde alle proprie convinzioni più profonde su come si debba vivere e realizzare la composizione dei diversi interessi è antica quanto l’umanità e con modi e tempi diversi si ripropone soprattutto nelle fasi di cambiamento o di declino delle idee che reggono un assetto politico, economico e sociale. Cercando di sfuggire a visioni di parte per assegnare torti e ragioni, credo che un punto di partenza utile alle riflessioni di tutti possa essere analizzare quale scelta è consolidata nella Carta costituzionale della Repubblica Italiana fra le differenti opzioni possibili per risolvere questa contrapposizione fra la Legge, intesa come regola che disciplina la convivenza di una comunità di uomini, e la Giustizia, intesa come ciò che ciascuno sente essere ciò che corrisponde alla propria visione del “dover essere” della convivenza umana. La prima considerazione da fare è che la Costituzione muove, implicitamente ma altrettanto certamente, dall’assunto che la Repubblica Italiana sia uno Stato. Elementi costitutivi di questa costruzione concettuale sono sostanzialmente tre. Primo, si riconosce la qualifica di Stato a quelle comunità che sono insediate su un territorio identificato da confini stabili. Secondo, le popolazioni organizzate in forma di Stato che ne costituiscono il popolo sono composte di persone legate stabilmente alla comunità da un rapporto giuridico, vale a dire regolato da norme, denominato cittadinanza. Terzo elemento che identifica l’esistenza dello Stato è la sovranità vale a dire la capacità di fissare le regole valide per tutti e di imporne e difenderne i contenuti, un potere che è esercitato dalle istituzioni che rappresentano e fanno funzionare quel soggetto collettivo che è appunto lo Stato. Come sappiamo per la nostra Costituzione la sovranità appartiene al Popolo, cioè ai cittadini, la cui volontà è quindi la base di legittimità dell’esercizio del potere. I cittadini esercitano la loro sovranità attraverso l’elezione di propri rappresentanti cui è affidato il compito di approvare le leggi vale a dire norme che, nel rispetto dei principi fondamentali posti a base della convivenza fra i cittadini, come sancite nella Costituzione, devono essere “generali e astratte” perché devono essere applicabili a tutti e in tutte le situazioni e non pensate a favore o contro qualcuno. I rappresentanti dei cittadini, oltre ad approvare le leggi, individuano e sostengono col loro consenso il Governo che deve attuare le scelte d’indirizzo politico contenute nelle leggi, assicurando il buon funzionamento dell’organizzazione dello Stato centrale.  Parlamento e Governo centrale, nel disegno costituzionale vigente, operano in collaborazione con quelle articolazioni della Repubblica, denominate autonomie locali (Regioni, Province, Comuni) per le quali valgono gli stessi principi di legittimazione democratica e funzionamento e che devono a loro volta esercitare il potere normativo e di gestione amministrativa avvicinandone i luoghi di esercizio ai cittadini cosi da assicurarne al meglio il rispetto dei diritti e l’adempimento dei doveri. 
Un primo e generale filtro a garanzia del rispetto della Costituzione è affidato al Presidente della Repubblica, ma il ruolo fondamentale è stato affidato alla magistratura. Compito della magistratura è applicare la legge approvata dai rappresentanti dei cittadini e che secondo il disegno costituzionale deve essere «uguale per tutti» ed è per assicurare al meglio questa egualianza nell’applicazione delle leggi che l’art.104 Cost., dispone che «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». Nell’assetto costituzionale vigente compito della magistratura dunque  è applicare la legge e  «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». La funzione interpretativa della legge quindi non può e non deve essere interpretata come possibilità di modificarne i contenuti, qualunque sia la valutazione personale del giudice che è soggetto solo alla legge, ma è appunto per questo più di ogni altro vincolato ad applicarla. Esiste tuttavia un’ipotesi costituzionalmente prevista che la legge appaia al giudice inapplicabile perché contraria alla Costituzione. In questo caso il giudice non può e non deve applicarla, ma essendo vincolato, come appena sopra chiarito, a quanto emerge dal testo della legge e se questo non è chiaro dall’intenzione del legislatore non può autonomamente sostituire la sua interpretazione può e deve solo sospenderne l’applicazione rinviando il giudizio sulla legittimità costituzionale delle legge alla Corte costituzionale. Alla luce di quanto esposto mi pare certo che la Costituzione oggi vigente nella Repubblica Italiana, non consente a nessuno, semplice cittadino, politico o magistrato, in nome dell’asserita ingiustizia della legge, né di suggerirne la disapplicazione né tanto meno di disapplicarla. Chi lo fa deve allora accettare realmente e senza scappatoie di pagare le conseguenze della propria disobbedienza civile. 
Unico limite alle leggi della Repubblica non sono le opinioni di singoli o anche di fette larghissime della popolazione ma sono i principi fondamentali sanciti in Costituzione e l’accertamento del superamento o della violazione di questi limiti è affidato solo ed esclusivamente alla Corte costituzionale. La nostra Costituzione contiene principi di civiltà insuperabili per le leggi e a loro presidio è posta la giustizia costituzionale ed è a questa che va affidato il presidio della conformità delle leggi all’attuale percezione della giustizia in una ponderazione ragionata degli interessi e delle idee di tutti. Fuori di questa prospettiva si apre la strada al relativismo giuridico che al pari del relativismo etico e comportamentale alimenta il rischio di crescenti, difficilmente controllabili, scontri sociali in un quadro di «Bellum omnium contra omnes», guerra di tutti contro tutti.
Gli esiti di questa prospettiva difficilmente corrisponderanno ai bisogni e alle aspettative delle persone, almeno di quelle persone che rispettano la libertà di ciascun essere umano di avere e coltivare la propria etica, senza imporla agli altri, per poter rivendicare il diritto di avere e coltivare la propria. Se si hanno forti valori, vanno fatti conoscere e condividere dagli altri e quando chi rappresenta quei valori sarà maggioranza nel Parlamento della Repubblica li tradurrà in leggi. Le leggi si rispettano, se non piacciono o non si ritengono giuste e si è ottenuto il consenso democratico necessario si cambiano.

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