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La vera questione è la legge elettorale

La vera questione è la legge elettorale

di Luca Tentoni

08 Ottobre 2019, 14:27

Oggi la Camera dovrebbe approvare definitivamente (con minimo 316 voti favorevoli) la legge costituzionale che riduce da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 quello dei senatori, ma la partita politica e l'iter del testo non finiscono qui. Oltre al tempo che deve trascorrere nell'attesa dell'eventuale richiesta di referendum popolare (e ai mesi che servirebbero per svolgerlo: si finirebbe per arrivare alla tarda primavera del 2021) ci sono questioni politiche da affrontare presto. La prima è legata alla legge elettorale: il minor numero dei seggi in palio può rendere il sistema - soprattutto in Senato - penalizzante per i partiti medi e piccoli, premiando molto i più grandi. Inoltre, alcune regioni potrebbero essere rappresentate da pochissimi senatori, comprimendo lo spazio per i gruppi di minoranza. La scelta di un meccanismo proporzionale senza gli attuali collegi uninominali (che assegnano oggi il 36% dei seggi) è, al momento, l'ipotesi più probabile, per due motivi: uno tecnico (limita meno lo spazio dei gruppi minori) e uno politico (la maggioranza “giallorossa” teme che, col metodo attuale, Salvini e Meloni possano aggiudicarsi tranquillamente la maggioranza in entrambe le Camere anche avendo il 40% dei voti). Però, la proporzionale non può essere pura, senza soglie di sbarramento: se così fosse, avremmo molti partitini con un altissimo potenziale di ricatto (soprattutto in Senato, microliste con due o tre seggi potrebbero far vivere o morire un governo). Dunque serve una barriera, fra il 4 e il 6 per cento.
Ma molti gruppi dell'attuale maggioranza (Leu, Italia viva di Renzi) e Forza Italia (che alcuni sondaggi danno vicina al 6%) potrebbero rischiare di restare fuori. Quindi, al momento di votare la legge elettorale, potrebbero non esserci i numeri sufficienti per approvarla (Lega e FdI voterebbero comunque contro). Se la legge penalizzasse o lasciasse fuori dal Parlamento il partito di Renzi, tanto per essere chiari, il governo cadrebbe. Se però la legge fosse generosa con i partiti più piccoli, questi potrebbero avere interesse ad andare ugualmente ad elezioni anticipate dopo averla approvata, pur di assicurarsi altri cinque anni di sopravvivenza parlamentare. Ecco perché la nuova legge elettorale è stata messa in un pacchetto comprendente altre riforme che cambieranno i regolamenti parlamentari (accorpando le commissioni, forse limitando al massimo il voto in sede deliberante) e - sul piano costituzionale - introdurranno la sfiducia costruttiva (come in Germania), eleggeranno il Senato non più su base regionale (per allargare le circoscrizioni ed evitare effetti iper maggioritari) e abbasseranno l'elettorato attivo (cioè il diritto di voto) per il Senato da 25 a 18 anni e quello passivo (cioè il diritto di essere eletti) da 40 a 25 (com'è ora per la Camera, parificando le assemblee). Se partisse il treno del “pacchetto”, le riforme regolamentari e il disegno di legge costituzionale con le altre modifiche potrebbero impegnare il Parlamento fino alla tarda primavera. Così, una norma della legge per il referendum potrebbe spostare l'eventuale consultazione popolare sul numero dei parlamentari all'autunno 2020, accorpandola con quella per le altre norme. In questo modo, si argomenta, da un lato si garantirebbero la razionalità e la completezza della riforma, mentre dall'altro si arriverebbe all'entrata in vigore del "pacchetto" a fine 2020, spostando eventuali elezioni anticipate alla primavera 2021, prima che inizi il “semestre bianco” durante il quale Mattarella (essendo prossimo alla fine del mandato, prevista per i primi del 2022) non potrebbe sciogliere le Camere. In sintesi, la maggioranza ha due possibilità: se resta unita, può fare le riforme e forse eleggere il nuovo Capo dello Stato nel 2022; se si sfascia, si va al voto presto con regole che porteranno Salvini in carrozza a Palazzo Chigi.

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