Quelli che vogliono far colpo le chiamano «imposte pigouviane» anche se l'economista inglese Arthur Cecil Pigou, in realtà, dovrebbe chiedere i danni. Pigou, infatti, voleva far pagare un costo equo - la tassa - a chi, producendo, provoca quello che nella teoria economica si chiama un'esternalità negativa. Per non farla lunga supponiamo che un'azienda, producendo, crei inquinamento ambientale. Ecco, l'idea è quella di attribuire un costo a questo inquinamento - che sopportiamo tutti - a carico dell'azienda che senza l'imposta non ne terrebbe conto e continuerebbe a inquinare senza pagarne il prezzo.
Questa però è solo la teoria. In realtà la maggior parte delle imposte che colpiscono i presunti vizi, non hanno alle spalle questa sofisticata strategia. Rispondono, piuttosto, a un bisogno molto più primordiale: quello di fare cassa in modo veloce e semplice perché non si possono sforare i vincoli di bilancio e non di riesce a tagliare le spese. Anzi, neppure ci si prova.
Accade così che si inventino «microtasse», come quella sulla plastica e sulle auto concesse dalle aziende ai dipendenti, solo perché sono più facilmente difendibili di un balzello come quello sul pane o sul latte che colpirebbe comportamenti considerati virtuosi. Chi non è contro l'inquinamento ambientale, infatti? Solo che si tratta di parole, senza alcun studio e senza nessuna programmazione. Con il rischio concreto, tra l'altro, di raggiungere l'effetto opposto. Ma del resto non è questo quello che interessa. Nel mirino c'è il gettito atteso. Cioè i soldi. Pochi (ma neanche tanto, purtroppo), maledetti e subito.
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