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Caso Siri: nessuno vuole alzare bandiera bianca

Caso Siri: nessuno vuole alzare bandiera bianca

di Domenico Cacopardo

08 Maggio 2019, 03:46

Oggi, di fronte agli italiani, andrà in scena l’epilogo del “caso Siri”. Se il sottosegretario leghista non presenterà, prima del consiglio dei ministri, le dimissioni, sarà il consiglio stesso a rimuoverlo. Qualunque soluzione non sarà indolore e aprirà un problema tutto da valutare.
È difficile comprendere le ragioni per le quali Luigi Di Maio ha voluto portare alle estreme conseguenze una questione che andava gestita, non trasformata in “caso” intorno al quale misurare le forze dei partiti di governo. Certo, ci sono le esigenze elettorali e la necessità di riproporsi come partito «dell’onestà», in modo da tentare il recupero di tutto o parte del consenso perduto dal 4 marzo 2018. Ma non basta. Anche perché, il capo dei 5Stelle - che di suo ha messo troppa carne al fuoco - ha inteso altresì aggravare la tensione con Salvini. Secondo lui, dovrà essere proprio Salvini a «far saltare il banco» assumendosi la responsabilità della reazione dei mercati. E poi, «siamo noi», (5Stelle), «ad avere la maggioranza nel consiglio dei ministri». Una vera e propria sciocchezza istituzionale quest’ultima, visto che in consiglio non vige il principio di maggioranza, ma quello di collegialità. 
Insomma, avendo trasformato l’operazione «Siri» in fatto emblematico, condendolo di varie provocazioni, Di Maio non può aspettarsi che Salvini alzi bandiera bianca. 
Il  vero problema politico è stabilire cosa accade se nessuno dei ministri della Lega si presenta alla riunione di oggi? Nonostante gli equilibrismi e la fantasia legale di Giuseppe Conte, sempre meno terzo, sempre più uomo di Di Maio, sarà difficile sostenere che la decisione dei ministri presenti sarebbe comunque valida ed esecutiva. 
Ciò che Di Maio e Conte non hanno valutato sono gli effetti di questo passaggio formale. Sarà difficile sostenere che non è successo niente e che tutto può andare avanti come prima.

Per la Lega, la linea di condotta è tracciata. Rivendicare ciò che c’è ancora da fare, in specie la flat tax, e non cedere sull’«ukase» per due evidenti ragioni: non dare la vittoria agli alleati-avversari; non abbandonare il proprio sottosegretario al tritacarne giudiziario, rivendicando il principio costituzionale dell’innocenza fino a una sentenza definitiva di condanna. Un principio di cui s’è fatto strame sin dagli anni ’80 e che fu sostanzialmente espulso dal nostro ordinamento da Tangentopoli in poi, sino cioè alla gestione del ministro della giustizia Paola Severino che riuscì a far passare una legge che collega a un atto intermedio, spesso putativo (cioè ritenuto fondato, ma infondato), dell’autorità giudiziaria penale le conseguenze che, in uno stato di diritto, si manifestano solo dopo una condanna. Definitiva.
Si tratta del sostanziale trasferimento nelle mani dell’autorità giudiziaria di un superpotere di censura dei singoli politici, con conseguenti inibizioni a esercitare pubbliche funzioni.
Sono quindi tanti e tutti cruciali i nodi che si aggrovigliano nella giornata odierna. 
Se dovessimo formulare una previsione, diremmo che, alla fine, non saranno sciolti. 
Insomma, si aprirà l’ennesima non-crisi della storia repubblicana.
Poi, il 26 maggio (elezioni europee), si vedrà.
www.cacopardo.it
 

 

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