Tra le sfide più delicate poste dalla pandemia ai legislatori e alle autorità politiche c’è senza alcun dubbio quella di individuare un punto di equilibrio virtuoso tra la tutela della salute pubblica e il rispetto della privacy delle persone. Una costruttiva riflessione sull’argomento deve anzitutto sgombrare il campo da fanatismi e radicalismi e calarsi in una situazione del tutto eccezionale come quella che stiamo vivendo da marzo 2020.
A partire dal primo lockdown, cioè da quando si è materializzata la prospettiva del “tempo sospeso”, con la conseguente rimodulazione delle nostre abitudini di vita, la dimensione della riservatezza è passata in secondo piano, sovrastata, nella gerarchia dei valori e delle preoccupazioni, da una totalizzante attenzione alla salute e dalla paura del contagio e della morte. Abbiamo accettato drastiche limitazioni del nostro diritto alla privacy in nome di una difesa rafforzata della salute personale e di comunità e abbiamo progressivamente preso atto che la dinamica di compressione delle libertà individuali non aveva risparmiato neppure la legittima aspirazione individuale alla protezione dei dati personali e sensibili.
È stato correttamente trasmesso ai cittadini il messaggio di una provvisoria sospensione delle norme a tutela della loro riservatezza a causa della necessità di impedire guai maggiori derivanti da una circolazione incontrollata del virus. In altri termini, il puntuale rispetto di quelle disposizioni normative avrebbe di fatto ostacolato le azioni di contrasto e prevenzione al Covid e dunque era necessario, stante l’eccezionalità del momento, sacrificare il valore della riservatezza per favorire la più ampia circolazione di informazioni personali di natura sanitaria.
Non si trattava – beninteso – di violazioni del diritto, bensì di deroghe parziali e temporanee alla puntuale applicazione di leggi europee e nazionali che provvidenzialmente hanno dilatato, nel corso dei decenni, la portata del valore della privacy, potenziandone le tutele giuridiche. Senza questi dolorosi passi indietro del valore della riservatezza, avremmo rischiato di compromettere una efficace ed estesa protezione della salute.
Eppure sopravvivono tuttora, e riemergono ciclicamente come un fiume carsico, convinte resistenze a questo ordine di valutazioni, interpretato come un’entrata a gamba tesa dei decisori istituzionali sul terreno del godimento dei diritti individuali e quindi anche della privacy. Ne abbiamo avuto prova tangibile nell’aprile 2020, quando si è iniziato a parlare di Immuni, app di tracciamento selezionata da una task force istituita dal governo per individuare soluzioni tecnologiche efficaci nelle azioni di prevenzione e contrasto dei contagi da Covid-19. Nel resto del mondo, i modelli di riferimento per app del genere erano riconducibili al filone della sorveglianza intrusiva, in particolare quelli in uso in Cina, Corea del Sud e Singapore, rivelatisi tuttavia provvidenziali per appiattire la curva della pandemia e ridurre allo stretto necessario lockdown e quarantene.
In Italia fu chiarito, anche a seguito delle opportune valutazioni del Garante della privacy, che l’app Immuni avrebbe sfruttato il bluetooth e altri sensori per avvisare gli utenti con una notifica sul telefono qualora fossero stati vicini a un contagiato per un tempo prolungato e potenzialmente rischioso, ma assicurando l’anominato grazie a codici alfanumerici.
Peraltro Immuni, tanto quanto le app adottate in Germania, Austria, Svizzera e altri Stati europei, attua un modello decentralizzato di gestione dei dati, che attutisce gli urti del loro monitoraggio sulla sfera della privacy individuale, proteggendola maggiormente. I dati, cioè, rimangono sui cellulari degli utenti e non finiscono in un server centrale, a differenza di quanto accade in Francia, dove il sistema è centralizzato e non si basa sul protocollo messo a disposizione da Google e Apple, soggetti fornitori del codice sorgente che rende poi possibile il tracciamento.
Dunque, rischi per la privacy assai contenuti e comunque limitati nel tempo, in considerazione del fatto che la cancellazione dei dati sarebbe avvenuta in automatico una volta raggiunta la finalità perseguita. «Più utenti scaricheranno Immuni, più il tracciamento funzionerà e riusciremo a limitare la circolazione del virus», si disse da più parti. Si precisò, dunque, con grande chiarezza che l’efficacia epidemiologica di quella soluzione sarebbe stata direttamente proporzionale al numero di cittadini che si fossero dotati della app.
Ma lo scetticismo prevalse e fu persa un’occasione preziosissima per attivare un meccanismo di tracking che sarebbe tornato utile nelle fasi iniziali delle varie ondate, quando cioè la diffusione del virus è ancora gestibile con l’“inseguimento” degli infetti. Anche nell’attuale quarta ondata, se almeno un italiano su due avesse scaricato l’app Immuni, le autorità sanitarie avrebbero potuto agire tempestivamente per stroncare sul nascere i focolai e isolare i casi di infezione. Ora è troppo tardi e l’unica strada, oltre alla vaccinazione, rimane quella di moltiplicare i tamponi quotidiani per avere una rappresentazione dell’andamento dei contagi il più possibile indicativa della reale pericolosità della curva pandemica.
Tutto questo perché una porzione consistente anzi maggioritaria della popolazione italiana ha temuto che l’app Immuni contribuisse a erodere la sovranità digitale individuale e introducesse attività invasive di profilazione di dati personali e sensibili in ambito sanitario. Peccato, però, che quotidianamente le app che scarichiamo con leggerezza sui nostri smartphone finiscano per scannerizzare e scansionare le nostre vite, attingendo in maniera disinvolta al serbatoio delle informazioni più riservate in cambio di servizi che reputiamo essenziali e che però, ad un’analisi più attenta, risultano esserlo infinitamente meno di quelli finalizzati alla tutela della salute. Ci facciamo “spiare” per il superfluo, ma poi ci rintaniamo nel guscio dei nostri pregiudizi quando si tratta di proteggerci dalla pandemia.
Forse farebbero bene a riflettere anche su questo gli organizzatori del primo Privacy pride, in programma oggi pomeriggio a Roma, Milano e Venezia, che si preoccupano giustamente della protezione della riservatezza dei dati personali e dei rischi concreti di un depotenziamento della figura dell’Autorità garante della privacy, ma dimostrano di avere la memoria corta. Sulla app Immuni, e anche su altri strumenti adottati dalle autorità politiche per contrastare il Covid, il parere del Garante è stato infatti richiesto e tenuto nella massima considerazione da chi doveva prendere decisioni delicate nell’interesse di tutti e le ha prese, senza però che i cittadini si rendessero conto fino in fondo di quanto fossero importanti per combattere la diffusione del virus.
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